Angela Randazzo e l’esperienza in Caritas

Angela Randazzo, della Compagnia di Caltanisetta, ci racconta la sua esperienza in Caritas. Per conto della CIIS, rappresenta gli Istituti Secolari Italiani nel Consiglio Nazionale della Caritas Italiana.

Grazie ad Angela per il suo prezioso servizio e per la condivisione!


Il mio impegno nella Caritas ha inizio nel lontano 1998 come consigliera, referente degli immigrati, nell’ambito del Consiglio diocesano della diocesi di Caltanissetta. Il mio piccolo paese che si chiama Delia, situato al centro della Sicilia in provincia di Caltanissetta, di poco meno di cinque mila abitanti, è un paese che da sempre ha avuto un forte flusso migratorio. La mia stessa famiglia a iniziare da mio padre con tutti i suoi familiari, tutti i miei fratelli e sorelle sono emigrati in Argentina, in Venezuela e in Canada. Io stessa sono stata cinque anni in Venezuela. Questa lunga esperienza di migrazione, certamente, ha contribuito a creare in me una particolare sensibilità su questo problema e ha sviluppato in me un’attenzione particolare nei confronti delle persone che oggi sono costrette e vivere questa stessa esperienza.

 Con il passare del tempo, il nostro territorio fortemente provato dal fenomeno dell’emigrazione si è trovato ad assistere ad un capovolgimento della situazione: da paese di emigrati siamo diventati paese di immigrati, con una presenza considerevole di persone provenienti dall’Africa del Nord, Marocco e Tunisia e dall’Est Europa, Romania, Ucraina, ecc.

La Caritas diocesana per cercare di dare risposte concrete a questo nuovo fenomeno, ha istituito a Delia il Centro di Ascolto Caritas per Immigrati “Marianna Amico Roxas” come segno tangibile della prossimità della nostra Chiesa locale alle persone che vivono ai margini della nostra società, dandomi la responsabilità di coordinatrice del Centro. L’obiettivo principale del Centro è stato quello di far crescere nella comunità la cultura dell’accoglienza e della solidarietà, che ci permette di dare corpo al comandamento dell’amore: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv13,34), attraverso i servizi di: ascolto, informazioni, accompagnamento, aiuto nella ricerca dell’abitazione, del lavoro e dell’inserimento nella società, oltre all’erogazione di beni di prima necessità.

Quest’anno sono stata chiamata a rappresentare gli Istituti Secolari nel Consiglio Nazionale della Caritas Italiana, proposta inaspettata e compito molto impegnativo che, se da un lato mi onora dall’altro mi responsabilizza sempre più. La Caritas Italiana, che è un “organismo pastorale costituito dalla Conferenza Episcopale Italiana” e che ha lo scopo di promuovere la testimonianza della carità nella comunità in collaborazione con gli altri organismi ecclesiali, si avvale dei vari organi previsti dallo statuto, tra questi il Consiglio Nazionale, per raggiungere tale obiettivo.

 Il Consiglio è costituito da: “tre Vescovi membri della Presidenza; Direttore e Tesoriere;  un Delegato per ciascuna Regione ecclesiastica (presbitero,  o diacono, o membro di Istituto di vita consacrata, o di società di vita apostolica, o laico) nominato dalla rispettiva Conferenza Episcopale;  quattro membri nominati rispettivamente dalla Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori (CISM), dalla Unione delle Superiori Maggiori d’Italia (USMI), dalla Conferenza degli Istituti Missionari Italiani (CIMI) e dalla Conferenza Italiana degli Istituti Secolari (CIIS); di quattro laici eletti dalla Consulta Nazionale dell’Apostolato dei laici”.(Art. 11, Statuto Caritas Italiana)

L’inserimento in questa nuova realtà è stato favorito dall’accoglienza cordiale, semplice e familiare del direttore e degli altri componenti, che mi hanno fatto sentire subito come fossi a casa mia.  Nuovi orizzonti si sono aperti alla conoscenza che avevo di questa Istituzione, che opera a livello locale e internazionale.

La Caritas Italiana  nata nel 1971, per volere di Paolo VI, nello spirito del rinnovamento avviato dal Concilio Vaticano II, che ha l’obiettivo principale  di: “promuovere la testimonianza della carità della comunità ecclesiale italiana, in forme consone ai tempi e ai bisogni, in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica” (Art.1 Statuto), mette sempre al  centro la  persona coinvolgendola nella ricerca delle  soluzioni rendendola protagonista, nella speranza di raggiungere l’autonomia nella costruzione del proprio futuro. Questo servizio la Caritas lo porta avanti attraverso l’azione quotidiana di quasi 200 Caritas diocesane in tutta Italia, i Centri di Ascolto, lo studio e il lavoro di rete con altre realtà che prestano il loro servizio per i poveri.

Fondamentale e costante il lavoro di formazione con l’equipe e i nuovi direttori di Caritas diocesane, con la Comunità professionale di formatori Caritas, a sostegno del piano integrato di Formazione. Momento importante e qualificante rappresentano i convegni nazionali annuali, grande investimento nella formazione e sulla cultura. Nell’anno 2019 il convegno si è svolto a Matera sul tema: “Carità è cultura”, nell’anno 2020 il tema del convegno sarà: “Carità è missione” e si svolgerà a Milano.

Nell’ambito dell’Immigrazione, l’impegno prioritario è quello di promuovere la cultura dell’accoglienza e del rispetto delle diversità. La Caritas continua a portare avanti il progetto legato ai “corridoi umanitari”, alle accoglienze nelle parrocchie, nelle strutture e comunità diocesane, nelle famiglie, ma anche nella promozione di progetti sul ricongiungimento familiare dei rifugiati in Italia.

L’impegno per e con i giovani è caratterizzato dal servizio civile dalle proposte di volontariato estivo. La collaborazione con il MIUR ha sviluppato l’attenzione al mondo della scuola, con i concorsi su accoglienza e comunità che includono.

L’impegno della Caritas Italiana non si esaurisce nell’ambito italiano, ma si estende nei vari paesi del mondo attraverso l’accompagnamento delle Chiese locali con la realizzazione dei microprogetti di sviluppo in ambito economico e sanitario. Le emergenze internazionali hanno visto la Caritas Italiana in prima fila con Caritas Internazionalis, come per il terremoto in Iran e Iraq, gli incendi in Grecia, la crisi umanitaria al confine angolano della Repubblica Democratica del Congo, le alluvioni in Kenia e terremoti e tsunami in Indonesia, solo per fare qualche esempio.

 In Siria è stato realizzato il progetto: Un mosaico di madreperla per condividere per denunciare gli orrori della guerra poiché l’arte è da sempre un megafono e può diventare uno strumento per ricostruire società lacerate dal conflitto.

In Venezuela, dove persiste una crisi definita come “emergenza umanitaria complessa”, la Caritas Italiana ha realizzato un programma umanitario ad ampio raggio su tutto il territorio nazionale sia sul versante degli aiuti alimentari e di prima necessità, sia sul versante della salute: farmaci, presidi sanitari e assistenza medica. Anche il nostro Centro di Ascolto diocesano “Marianna Amico Roxas” ha contribuito con la raccolta di medicine e l’accoglienza e l’aiuto a tanti italiani e italovenezuelani ritornati in patria a motivo della crisi socio-politica. La crisi continua ancora, di conseguenza anche l’azione della Caritas.

In Kenia, il basket, attraverso il progetto Slumsdunk, è diventato lo strumento per costruire il domani: proprio a Mathare è stata aperta una scuola di pallacanestro che offre corsi di basket a ragazzi e formazione per giovani allenatori del futuro promuovendo un’alternativa alla vita di strada. Già 20 ragazzi e ragazze, grazie al progetto, hanno ottenuto borse di studio nelle più prestigiose scuole del Kenia.

Anche in Italia sono stati realizzati diversi progetti. Cito alcuni esempi.

A Reggio Emilia-Guastalla, con il progetto Costruire segni di speranza, si è reso necessario elaborare percorsi di prossimità alle persone povere, proponendo loro cammini di accompagnamento costante, coinvolgendo il territorio di provenienza. Per rilanciare e qualificare la disponibilità a camminare insieme alle persone in difficoltà, sono state costituite equipe di operatori con competenze diverse chiamati a supportare le unità pastorali nell’assumere carità e accoglienza come autentico stile di vita delle comunità cristiane.

A Fano-Fossombrone-Cagli-Pergola, la promozione del progetto “strada di casa” ha cercato di andare incontro alle tante persone e famiglie che vivono un’esperienza di forte instabilità legata all’abitazione: morosità, sfratti, difficoltà a reperire alloggi. Tutto questo per dare risposte significative, senza dimenticare l’approccio educativo.

A Caltanissetta, la Caritas ha avviato il proprio emporio alimentare nel centro della città. Don Marco Paternò, assistente diocesano, così presenta questa nuova realtà: “la peculiarità di questa opera “segno” è la dignità che si dà alla persona, che non riceve il pacco spesa da portare a casa, ma entra in questo piccolo supermercato e sceglie ciò che le serve, così come si fa in tutti i supermercati. Nella scheda che usano per fare la spesa si dà un punteggio a scalare, che diventa anche un modo di responsabilizzare la persona. Quello dell’emporio è un servizio che poi si trasforma e continua anche in un rapporto di accompagnamento con le famiglie. Per la comunità l’emporio è stato una novità, qualcosa che gradualmente sta sensibilizzando le coscienze. Nel primo anno di vita, diversi volontari provenienti dalle Caritas parrocchiali, si sono avvicinati a questa opera “segno”. È nata una bella rete, che spero si amplierà sempre più”.

Questi sono solo alcuni dei progetti e degli impegni che la Caritas porta avanti per testimoniare l’amore di Dio per l’uomo, per ogni uomo, in particolare per chi vive ai margini della società. L’accoglienza dell’altro, la vicinanza che si esprime nella prossimità, nella condivisione, nella disponibilità a servire, non solo dà sollievo alle persone che vivono una situazione di disagio, ma rende felice chi fa l’esperienza di essere dono[1].

Angela Randazzo

[1] Nella presentazione degli impegni e delle attività della Caritas a livello nazionale e internazionale si fa riferimento al Rapporto Annuale della Caritas Italiana del 2018.

lettera Presidente CIIS-Incontro S.E.Carballo

Invito tutti i membri alla lettura della lettera che la presidente Carmela T., (su sollecitazione/condivisione del Consiglio CIIS) ha inviato a tutte le/i  Responsabili generali.

È unita alle “note” stese a conclusione dell’incontro con Mons. Carballo, Segretario Arcivescovo della Congregazione IVCSVA.

Per tutte noi stimolo forte per “stare ” efficacemente nella realtà attuale senza perdere di vista il cammino proposto a tutti gli Istituti per il triennio CIIS.

Maria Razza

 

Relazione di Fratel Luca Fallica

Molto interessante la relazione che fratel Luca Fallica ha offerto ai Responsabili degli I.S. Italiani.

Viene riportata dalla rivista  “Incontro” perché sia di aiuto alla riflessione e all’approfondimento della realtà in cui viviamo, oggi particolarmente difficile…

Maria Razza

Non perdiamoci d’animo! Camminiamo come sentinelle nella notte…

Le parole di incoraggiamento della Chiesa italiana attraverso le parole che il Segretario della CEI, mons. Stefano Russo in questo momento tanto particolare, confermano l’apprezzamento dei Pastori per la vita consacrata e sono un invito ad essere Profezia nel ministero della preghiera, dell’offerta quotidiana, della testimonianza, della condivisione e della comunione.

La Presidente ci scrive

La Presidente Valeria ci scrive una lettera che potete trovare nel link qui sotto.

Comunica inoltre che vengono sospesi questi appuntamenti:

  • le giornate di formazione e spiritualità a Brescia dell’1, 2 e 3 maggio 2020 per Direttrici, Legale Rappresentante di Compagnia, Vice-direttrici, Consigliere, Responsabili di formazione iniziale e permanente.
  • il convegno internazionale della Federazione programmato dal 24 al 28 luglio 2020 presso l’Abbazia di Novacella (Bolzano/Bressanone)

 

Cari consacrati e consacrate…

Condividiamo la Lettera della Congregazione per gli “Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica” inviata a tutti i consacrati/e in occasione del particolare tempo di Quaresima che stiamo vivendo.

 

 

Proposta di Lectio Divina

Condividiamo una interessante proposta di lectio per Quaresima e il tempo di Pasqua, clicca il bottone qua sotto per scaricarla.


Commenti offerti da Don Giuseppe De Virgili, biblista e docente di Sacra Scrittura.
Fonte: www.qunran2.net

 

 

Angela Merici la Giuditta del suo tempo

Condividiamo un interessante contributo alla riflessione offerto da un sacerdote a una Compagnia … e dalla Compagnia a tutte noi.


Il Libro di Giuditta

Nella Bibbia troviamo alcuni libri che portano il nome di figure femminili, come Ester e Ruth. Anche Giuditta si colloca in questa genealogia: Giuditta è la terza donna a cui viene dedicato un libro dell’Antico Testamento. Del libro noi possediamo solo la versione greca, mentre il manoscritto ebraico probabilmente è andato perduto. La data di composizione è da collocarsi attorno al 100 a.C.

Genere letterario: il libro non è una vera e propria storia, come si rileva dalla deliberata indifferenza per le precise informazioni storiche e cronologiche. È piuttosto una “novella edificante”; verso il 150 a.C. la letteratura dei Giudei oscillava tra due generi letterari principali: “il midrash haggadico” (racconto edificante su uno spunto offerto da un episodio o da un testo biblico); e la “visione apocalittica”, in pratica la descrizione del trionfo sicuro di Dio su tutti i nemici, ultima forma della profezia. Il Libro di Giuditta oscilla tra l’uno e l’altro.

 

Un uomo fatto dio

Nel libro si racconta come un re assiro, con un nome chiaramente babilonese (già qui: un equivoco storico!), Nabukadnezzar (meglio conosciuto come Nabucodonosor), dopo aver sconfitto il suo rivale politico, il re dei Medi Arfacsad, rivendichi il dominio sul mondo intero. Per questo manda Oloferne, generale in capo di tutte le sue truppe, a conquistare tutti i paesi della terra e a instaurare a ferro e fuoco il suo dominio. Durante la campagna militare Oloferne distrugge non solo le città, ma anche i templi e gli idoli dei nemici perché: «tutti i popoli adorassero solo Nabucodònosor, e tutte le lingue e le tribù lo invocassero come dio» (Gdt 3,8).

Giuditta incarna la nazione giudaica (il nome “Giuditta” significa “la giudea”), il popolo eletto da Dio (=che ha contratto un’alleanza), stabile nella sua fedeltà a Jahwé, praticante la sua legge e puro da ogni inquinamento d’idolatria. Infatti, l’autore del Libro esalta la fierezza religiosa del popolo di Dio al cospetto dei suoi nemici, e al contempo, mette in risalto le risorse di Jahwé, che si serve per le sue opere grandi di umili e semplici strumenti qual’è Giuditta, una donna…

Così tutto ci orienta a cogliere la lezione religiosa: il popolo di Dio vince sul nemico anche per mano di una donna, se rimane “popolo di Dio”, come Giuditta lo rappresenta, scrupolosa osservante della Torah, fiduciosa in Dio, e perciò sempre in preghiera.

È notevole anche la prospettiva universalistica della salvezza: la vittoria d’Israele non vale solo per se stessa, ma è segno per tutti i popoli: non per nulla il senso religioso della guerra è colto da Achior, un Ammonita che poi si converte; e la salvezza di Gerusalemme è assicurata dalla città di Betùlia (=la casa di Dio), collocata in quella Samaria che i rigoristi del Giudaismo non stimavano affatto.

 

La resistenza

Di fronte all’esercito di Oloferne oramai giunto alle porte della cittadina israelitica di Betùlia nelle montagne di Samaria, il popolo di Giuda, sotto la guida del sommo sacerdote Ioiakim, si organizza per la difesa e chiede l’aiuto di Dio digiunando e pregando (Gdt 4). Oloferne davanti a questo atteggiamento reagisce con sdegno e ira (5,2-4). Allora l’ammonita Achior spiega che questo strano popolo è sorretto da un Dio che «odia il male» (5,17) e che perciò, se non si macchia di peccato, è invincibile. Infuriato per queste parole, Oloferne professa che non c’è altro dio al di fuori di Nabucodonosor. Anzi «questi manderà il suo esercito e li sterminerà dalla faccia della terra, né il loro Dio potrà liberarli” (6,2). Dopodiché fa esporre Achior sul monte vicino a Betùlia e lo abbandona nelle mani degli Israeliti. Cinge d’assedio la città, impedendo ogni approvvigionamento d’acqua (7,1- 18), la quale presto in città viene a mancare quasi del tutto; e gli abitanti tormentati dalla sete chiedono ad Ozia e ai capi della città di dichiarare la resa della città (7,19-29). Ozia sta per cedere ma decide di darsi solo altri cinque giorni, fidando nell’intervento di Dio: «Coraggio, fratelli, resistiamo ancora cinque giorni e in questo tempo il Signore, nostro Dio, rivolgerà di nuovo la sua misericordia su di noi…» (7,30-31).

 

La forza morale di Giuditta

A questo punto entra in scena Giuditta, figlia di Merari e vedova di Manasse. Una donna dall’aspetto affascinante, ricca e pia (8,1-8). Sentite le intenzioni dei capi di resistere solo per altri cinque giorni e di arrendersi poi all’invasore, Giuditta fa convocare presso di sé i responsabili della città. Li esorta a non tentare Dio, a non mettersi al di sopra di Lui:

«Voi volete mettere alla prova il Signore onnipotente, ma non comprenderete niente, né ora né mai…. E voi non pretendete di ipotecare i piani del Signore, nostro Dio, perché Dio non è come un uomo a cui si possano fare minacce, né un figlio d’uomo su cui si possano esercitare pressioni» (8,13.16).

Quindi li invita a confidare in lui: «Perciò attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui, supplichiamolo che venga in nostro aiuto e ascolterà il nostro grido, se a lui piacerà» (8,17).

Al termine del suo discorso Giuditta si offre volontaria per una missione che però non svela:

«Ascoltatemi! Voglio compiere un’impresa che verrà ricordata di generazione in generazione ai figli del nostro popolo. Voi starete di guardia alla porta della città questa notte; io uscirò con la mia ancella ed entro quei giorni, dopo i quali avete deciso di consegnare la città ai nostri nemici, il Signore per mano mia salverà Israele» (8,32-33).

Giuditta da Oloferne

Prima di partire per l’accampamento nemico, dopo essersi prostrata con la faccia a terra e con il capo sparso di cenere, Giuditta implora Dio che le dia forza: «La tua forza non sta nel numero, né sugli armati si regge il tuo regno: tu sei invece il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (9,11). Indossa le vesti più belle, si orna nel migliore dei modi ed esce con la serva.

Spacciandosi per transfuga entra nell’accampamento di Oloferne dove è da tutti ammirata per la sua bellezza radiosa (Gt 10). Oloferne ne rimane sopraffatto e le promette di realizzare ogni suo desiderio purché acconsenta di dormire con lui (12,17). Al quarto giorno Oloferne fa preparare un banchetto al quale invita Giuditta ma non i suoi ufficiali. Durante il ricevimento il generale si ubriaca. Mentre dorme nella tenda in cui ci sono solo lui e Giuditta, questa afferra la spada e gli mozza la tesa. La mette, quindi, in un sacco e corre veloce verso la città di Betùlia, dove mostra al popolo la testa del nemico d’Israele. Il popolo, fuori di sé, loda in coro Dio: «Benedetto sei tu, nostro Dio, che hai annientato in questo giorno i nemici del tuo popolo» (13,17); e Ozia tesse le lodi di Giuditta: «Benedetta sei tu, figlia, davanti al Dio altissimo più di tutte le donne che vivono sulla terra e benedetto il Signore Dio che ha creato il cielo e la terra e ti ha guidato a troncare la testa del capo dei nostri nemici… Dio faccia riuscire questa impresa a tua perenne esaltazione, ricolmandoti di beni, in riconoscimento della prontezza con cui hai esposto la vita di fronte all’umiliazione della nostra stirpe, e hai sollevato il nostro abbattimento, comportandoti rettamente davanti al nostro Dio» (13,18.20).

Il mattino seguente gli Assiri trovano il cadavere decapitato di Oloferne e presi dal panico si danno alla fuga. Gli abitanti di Betùlia saccheggiano l’accampamento nemico e raccolgono un grande bottino. Giuditta è esaltata da tutti: «Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu magnifico vanto d’Israele, tu splendido onore della nostra gente» (15,9) e finché visse, nessun nemico osò attaccare Israele (16,25).

 

A che pro questa storia?

Ai nostri occhi una donna che mozza il capo a un uomo può suscitare un’impressione truculenta e scandalosa, ma si deve ricordare che il libretto non vuole essere un resoconto di fatti storici precisi, bensì l’esposizione di un dato che va’ al di là della storia stessa, intesa come mera cronaca di quanto avviene. Il testo si presenta perciò come uno scritto didattico rivestito con una narrazione storica, che intende mostrare quali siano le potenze in gioco e le forze che determinano il corso degli eventi storici.

Il forte e crudele Oloferne è espressione di una super-potenza mondiale sicura di se stessa e nemica di Dio; di fronte a lui è posta, non a caso, una donna segno della fragilità e della debolezza, che rappresenta il piccolo popolo oppresso di Israele. Lo scontro diventa quindi scontro tra bene e male, tra chi confida unicamente sulla sua potenza e chi invece sulla potenza di Dio, senza confini di tempo e di luogo. Questo motiva la presenza di numerose incongruenze storiche e geografiche e l’autore è libero di usare nomi e dati storici con grande libertà.

La vicenda di Giuditta esprime un insegnamento che potremmo riassumere con le parole di san Paolo:

«Quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio.» (cfr. 1 Cor 1,27-29).

Secondo le parole stesse del libro, la donna fu uno strumento della salvezza.

Avendo procurato la salvezza e la liberazione del popolo di Dio votato alla distruzione, per i Padri della Chiesa Giuditta è prefigurazione di Maria. Nel saluto che nel vangelo di Luca Elisabetta dà a Maria: «Benedetta più di tutte le altre donne», riecheggia la lode di Ozia a Giuditta: «Sei benedetta da Dio, l’Altissimo, più di tutte le altre donne della terra» (13,18).

Una donna che ci provoca, come ci ricorda la teologa Lidia Maggi:

«Dio, in questa storia, a dire il vero, sembra essere il grande assente, nonostante il suo nome riempia quasi ogni capitolo. Giuditta, che pure lo nomina e lo adora, non prega mai per chiedere a Lui consiglio: essa decide in piena autonomia, senza informare il popolo, disinteressandosi all’ascolto di ciò che Dio ha da dirle. Questo tratto, che sembra mettere in cattiva luce la fede della nostra eroina, è ciò che più mi attrae della vicenda.

Giuditta si assume la piena responsabilità delle proprie azioni. Non ha la pretesa di conservare la sua integrità personale, anche se alla fine si tutela dichiarando di non aver avuto rapporti intimi con il nemico. In situazioni estreme – sembra suggerire questo racconto – la differenza tra il bene e il male richiede un ulteriore discernimento, rispetto a quello fornito dalla Legge. Non basta, cioè, attenersi al “non uccidere”; occorre rischiare ed agire per far fronte ad una situazione drammatica, che produce morte. Nel rileggere la vicenda narrata nel libro di Giuditta, vengono alla mente alcune riflessioni del pastore luterano Dietrich Bonhoeffer. Il quale, nonostante le sue convinzioni nonviolente, si ritrovò a partecipare ad un attentato contro Hitler, convinto che quello fosse il male minore. Le alterne vicende storiche domandano al credente un’assunzione di responsabilità in cui la fede domanda intelligenza, astuzia, rischio. E soprattutto una radicale messa in gioco della propria persona».

Giuditta: icona per S. Angela e la sua compagnia
  1. Un tratto fondamentale dell’identità della figlia di Sant’Angela è la verginità:

«ogn’una che haverà a intrare o esser admessa in questa Compagnia, debba esser vergine et habbia ferma intentione di servir a Dio in tal sorte di vita» (Reg, I). L’elemento innovativo della verginità nella Compagnia di Sant’Orsola consiste nel fatto che mentre la verginità doveva essere custodita nelle forme tradizionali del convento o dell’autorità familiare, Angela lascia le sue figlie nel mondo dando loro la responsabilità di gestire la propria condizione di vergini. «In questo senso la figura mericiana di vergine minava il sistema familiare e la concezione tradizionale dell’onore femminile. La scelta di Angela va spiegata in relazione al significato simbolico della verginità proprio della sua epoca. In una società che definiva le donne attraverso la sessualità, che non le riconosceva come soggetti a pieno titolo, e che le scambiava tra le famiglie per rinforzare il lignaggio, la vergine era un tipo di donna potenzialmente indipendente, in quanto fuggiva gli scambi matrimoniali e non rientrava nei ruoli sociali tradizionali. La vergine era un tipo di donna potente perché la verginità liberava la donna dal dominio maschile e dai legami secolari». (Querciolo Mazzonis, Angela Merici e la compagnia di sant’Orsola delle origini)

Responsabilità personale, riferimento a una figura di donna forte, libera dai legami e dal dominio maschile (anche ecclesiastico): tutti elementi che portano Angela a fare riferimento alla figura di Giuditta, figura carica di connotati virili ed eroici:

«… siamo chiamate a tal gloria di vita, che spose del Figliol di Dio siamo, et in ciel regine diveniamo. Però, accorte e prudenti qui esser bisogna; imperò che tanto mazzor faticha et pericolo li convien che sia, quanto la impresa che se fa è di mazzor valore; perché non è sorta di male che qui non ce sia per opponersi […] Horsù valente, adonque, tutte abbraciamo questa santa Regola, che Dio per sua gratia ne ha offerto. Et, armate de gli suoi sacri precetti, vogliamosi così virilmente diportare, che ancor noi, a modo dela santa Judith, tronchata animosamente la testa d’Oloferne, cioè del diavolo, gloriosamente alla patria ritornar possiamo» (Reg, Prologo).

Che questa interpretazione della consacrazione andasse contro la concezione del tempo, emerge chiaramente dalle reazioni alla compagnia dopo la morte di Angela e riportate in una lettera del Cozzano:

«Que Compagnia la è, che ognun se ne mena beffe? Frati, preti, specialmente, et altre persone savie […] Et meritatamente quella sor Angela esser vituperata, che habbia sollecitato tante vergini a prometter verginitade, senza un risguardar dove la le lassava nelli perigoli del mondo […] Et che pensavela di fare? Di imitar ancor lei un santo Benedetto, una santa Chiara, un santo Francesco. Anzi ancor ella ha volesto esser da più, et pensava, assegurandose, a poner vergini in mezzo del mondo, cosa che mai ardite alcun de patriarchi».

I forti connotati ispirati ad Angela dalla figura di Giuditta emergono anche dalla scelta mericiana di porre al centro, prima che l’Istituzione, l’individuo e la sua umanità, gli affetti, la volontà, la mente e il cuore, i gesti e le intenzioni, l’esteriorità e l’interiorità.

In sintonia con l’esperienza femminile del sacro, specialmente in quelle donne devote che vissero nel mondo, come le beghine, le bizzoche e le diverse terziarie, anche Angela chiede alle sue figlie di vivere il rapporto con Dio non tanto enfatizzando il luogo (il convento) quanto piuttosto la conversione interiore soprattutto con le pratiche penitenziali e la preghiera.

Angela distingue tra digiuno corporale e spirituale e chiarisce che la funzione dell’astinenza dal cibo è per il raggiungimento dell’astinenza spirituale, cioè l’indipendenza dai valori del mondo. Se il digiuno fisico era uno strumento, quello spirituale era una condizione esistenziale: «ogn’una abbrazzar voglia anche il digiuno corporale, sì come cosa necessaria, et come mezzo et via al ver digiuno spirituale, per il qual tutti gli vitii et errori dala mente se tronchano […] il digiuno et astinentia convien che sia il principio et mezzo di tutti gli beni et profetti nostri spirituali» (Ibid.).

Un’altra intuizione avvicina Angela alla Giuditta “credente controcorrente”: il considerare la preghiera mentale più importante di quella vocale e distinguere chiaramente tra le due forme. Il ruolo della preghiera vocale, dunque, come nel caso del digiuno, consisteva nel predisporre l’individuo alla vita spirituale.

  1. La compagnia propone alle consacrate non una pesante struttura di potere che sovrasti l’individuo nella sua umanità e individualità.

La centralità, il rispetto e la sacralità della persona (anziché delle strutture esteriori e istituzionali) emerge in maniera evidente anche quando Angela avverte le Colonnelle di astenersi dal giudicare le scelte di vita intraprese dalle loro sottoposte: «non sapeti cosa il [Dio] voglia far di loro […] Et poi chi po giudicare gli cori et gli pensieri secreti di dentro della creatura? […] che a voi non sta giudicar le ancille di Iddio; il qual ben sa che cosa il ne vol fare» (Ric, 8). L’esperienza che l’angelina fa della propria soggettività, consistente nei propri pensieri, sentimenti, volontà, parole, gesti, e ogni altro aspetto interiore ed esteriore, si realizza pienamente nell’unione con Dio. Nella preghiera mentale che Angela chiede di recitare, in cui si delinea l’unione tra l’angelina e Dio, viene descritta la persona in tutta la sua complessità: «assegura i miei affetti et sensi […] ti prego che tu te degne de ricever questo mio vilissimo et immondo cuore […] ricevi il mio libero arbitrio, ogni mia propria voluntade […] Riceve ogni mio pensar, parlar et operare, ogni mia cosa finalmente così interiore come esteriore» (Reg. V).

                           Don Mauro Stabellini PC

Giornata mondiale per la Vita consacrata

Religiose, religiosi, membri degli istituti secolari, eremiti, eremite, sorelle dell’ordo virginum… i consacrati della Chiesa di Padova  si sono ritrovati sabato 1 febbraio (anticipando la festa della Presentazione al tempio di Gesù, 2 febbraio) nella chiesa dell’Opera della Provvidenza Sant’Antonio a Sarmeola di Rubano, insieme al vescovo Claudio, che ha presieduto l’Eucaristia, per rinnovare l’impegno della loro consacrazione nelle varie forme di vita consacrata, ringraziare il Signore, in modo particolare per i giubilei di professione raggiunti (in particolare i 25mi e 50mi di professione religiosa), e pregare per il dono di nuove vocazioni.

Di seguito vi proponiamo l’omelia del vescovo Claudio Cipolla.


Mentre lo scorso anno ho chiesto di riflettere sul dono che voi fate alla Chiesa della vita comunitaria, quest’anno desidero richiamare la vostra attenzione su un aspetto della nostra vita che in questo momento mi sta particolarmente a cuore: il dono del celibato e della verginità. Uno strano pudore confina questo tema in un ambito strettamente personale. Diventa invece argomento dibattuto e doloroso quando finisce sui giornali a motivo di qualche scandalo. Allora, come preti, diaconi celibi, uomini e donne consacrate ne usciamo screditati e le nostre comunità vivono giorni amari. Il dibattito poi che ne segue non è mai lucido: per alcuni la verginità ed il celibato diventano una forma di vita sorpassata, da cancellare; altri la sostengono, ma in modo poco convincente.

Allo stesso tempo destano stupore e gratitudine quei consacrati che nella serenità e nel silenzio continuano nelle loro giornate a donare quell’affetto forte e sincero, limpido e casto, che tocca i cuori delle tante persone che a loro si rivolgono per uno sfogo, un consiglio, una condivisione. La vita che abbiamo scelto non è prima di tutto una mancanza – certo la rinuncia è presente e in alcuni tempi può essere più sentita e faticosa –, ma la nostra vita è prima di tutto la dedizione piena e consapevole ad un amore totalizzante: la persona di Gesù. Come il mercante che cerca perle preziose e vende tutto quando trova una perla di grande valore, così abbiamo trovato anche noi la perla preziosa dell’Amore. Abbiamo scelto Lui come sposo, amico, signore, compagno, fratello, tesoro o meglio Lui ci ha chiamato a vivere un’intimità tutta speciale con sé. L’innamoramento dei primi tempi, attraversando forse anche stagioni di buio e di silenzio, è diventato sempre più amore vissuto, sperimentato, fedele. La nostra vita è dialogo con il Signore che richiede tempi e spazi per essere custodito.

Forse avremmo bisogno di raccontarci questo cammino fatto di amore e di silenzio, di come stiamo nella solitudine e nella comunione con Dio e con gli altri. Potremmo prenderci più cura gli uni degli altri, da veri fratelli e sorelle, e sostenerci reciprocamente in quegli impegni di amore fedele e totale che ci siamo assunti nella Chiesa, davanti a Dio. I Vangeli non esplicitano “teorie” sul celibato. Riportano la scelta che Gesù ha compiuto: vivere da celibe per il Padre e per i fratelli. Era celibe non casualmente né per comodità né perché disprezzasse la sessualità ma perché era dedicato interamente al Regno di Dio. Nella relazione di Gesù con i discepoli, con i bambini, con le prostitute e i pubblicani, i malati e i lebbrosi e perfino con i farisei, c’era un amore appassionato. Egli ha donato la vita per i suoi amici e ha invitato i discepoli a fare altrettanto. La generosa risposta alla chiamata, mettendo come lui tutto della nostra vita, anche il dono della sessualità, al servizio di Gesù per il Regno, è una risorsa, un modo di amare, non un problema e questo dona pienezza alla nostra esistenza.

Anche noi che viviamo nel celibato o nella verginità consacrata non sappiamo sempre trovare le parole adatte per esprimere o sostenere la nostra condizione di vita davanti al mondo. Però c’è un fatto: la stiamo vivendo per Dio e a servizio di una comunità. È una decisione che abbiamo preso al seguito del Signore, per amare di più. Al pari di Gesù, noi testimoniamo il Regno se mostriamo che la nostra vita è resa bella da questo, se la nostra disponibilità al prossimo è in un certo senso “liberata” dalla scelta della castità. Maria, sempre vergine, con la sua vita interamente donata fino ai piedi della Croce, dove diviene anche nostra madre, ci ricorda che la verginità consacrata e la totale donazione al ministero sono sorgente di una fecondità misteriosa ma reale.

La nostra è stata una decisione personale ma non privata: abbiamo assunto degli impegni solenni al cospetto di Dio e della Chiesa. Il ministero o la consacrazione ci espone, ci rende persone pubbliche, “rappresentanti” delle comunità o di un carisma religioso di fronte al mondo. È una responsabilità che non possiamo dimenticare. Quello che ci compete personalmente è di crescere in questa testimonianza, educandoci a quegli atteggiamenti e praticando quei comportamenti che non riducano la verginità ed il celibato a una donazione di facciata, a semplice etichetta. Lo facciamo per amore dei fratelli che vogliamo servire e vogliamo servirli al meglio. Siamo d’accordo non c’è nessun male ad amare: amare qualcuno non può mai allontanare da Dio se guidati dal Vangelo. Ciascuno è chiamato ad amare ma nella fedeltà alla propria vocazione. Ci siamo impegnati in una vita celibataria e verginale in un passato più o meno recente ma siamo consapevoli che il celibato è grazia da accogliere quotidianamente. Le motivazioni che ci hanno guidato ieri probabilmente non sono quelle che ci sostengono oggi. Forse incontri, simpatie, condizioni, tempi di vero deserto hanno segnato la nostra storia ma non per questo l’hanno interrotta; quello che oggi ci sostiene non è più l’esuberanza degli inizi ma un’esperienza più profonda che porta con sé oltre alle ferite una fecondità e un’intimità che ieri non conoscevamo. A partire da questo possiamo ri-scegliere ogni giorno la nostra donazione totale al Signore nella comunità. Conta l’attualità del nostro amore. Da questo amore di oggi, e solo da questo, dipende la fedeltà al nostro impegno di ieri, non tanto dalla purezza e dall’entusiasmo della decisione iniziale. Questo noi lo ripetiamo alle coppie sposate, a chi vive momenti di ripensamento, ma vale prima di tutto per noi. Del resto, non possiamo avere una parola autorevole nei riguardi dei fratelli che ci sono affidati, se non riconosciamo che le loro mancanze e tentazioni sono anche le nostre e se non offriamo loro la testimonianza di una vita che, dentro alle fatiche, rimane aperta alla conversione e al dono di sé.

A proposito di mancanze e tentazioni, è onesto da parte nostra tener conto di una cosa: nessuno di noi può sottrarsi alle dinamiche che caratterizzano la stagione culturale in cui viviamo. Esse influenzano fortemente l’area affettiva e sessuale, dei singoli e dei gruppi. Osserviamo questo negli altri e offriamo loro ascolto e aiuto. Ma quanto questa “stagione” sta influenzando il nostro modo di essere e dunque di amare? Il ruolo, il compito che abbiamo di testimoniare e predicare agli altri rischia di farci dimenticare quella “fatica di vivere” che condividiamo con ogni uomo e donna, vecchio e bambino, malato e povero. Potremmo dispensarci da quella fatica che chiediamo di sostenere ai nostri fratelli e alle nostre sorelle? O accettare di vivere nell’ambiguità relazioni o situazioni incompatibili con la dedizione richiesta dal nostro impegno apostolico? In fondo percorrere per primi con umiltà e sacrificio questo cammino del nostro cuore è già sorgente di fecondità per la Chiesa. Il discepolato cristiano è sempre un itinerario. È chiaro: vivere nell’ambiguità di relazioni e abitudini morali non consone al proprio stato di vita – condurre una “doppia vita” in altre parole – è la negazione di ogni crescita. Ma un’esperienza matura della sessualità non può non fare i conti con la possibilità che la vita affettiva incontri blocchi e involuzioni, così come per ogni uomo e donna la vita affettiva non è una vita ordinata che si deve solo preservare, ma un cammino verso una verità cercata e mai trovata in modo definitivo. Il discepolato è sempre un itinerario e in questo percorso esiste la notte, ma non c’è notte che non possa aprirsi alla luce di Gesù. In questa prospettiva, il tema della crisi e della prova trova nel vissuto spirituale la sua più vera rilettura e risorsa. Va senz’altro apprezzato e tenuto in seria considerazione il ricorso al sostegno psicologico per individuare e curare quelle ferite e dinamiche che stanno a monte di alcune fragilità ma non va considerato come terapia unica ed esaustiva. In molti casi è necessaria, mai sufficiente. Poiché la scelta celibataria e di vita consacrata orienta verso la stessa donazione totale di Gesù riguardo al Regno e alimenta il legame con il Signore, questa ci consente di assumere nella maniera più piena la nostra verità di persone dedicate alla Chiesa per amore del Signore. È necessario sempre ripartire da qui, dal nostro rapporto con il Signore. Il celibato e la verginità consacrata non reggono nella storia di chi riduce l’apostolato all’attivismo, di chi non ha una vita di preghiera, di chi non fa dell’Eucaristia la sorgente e il sostegno della sua fedeltà; anche la decisione di stare con i poveri e di sentirsi parte della Chiesa sono necessarie per dare significato al nostro celibato e alla nostra verginità.

Carissimi, ci mettiamo anche noi tra coloro che fanno fatica, siamo anche noi in cammino e ci piace stare con tutto il popolo di Dio affrontando con speranza l’inestimabile dono della vita con le sue sfide, invocando la misericordia del Signore e la forza del suo Spirito per rispondere sempre generosamente ed umilmente alla sua chiamata.

Sappiamo anche che voi, consacrati al Signore, ci precedete nel credere, nel fare esperienza e nella testimonianza che il Signore Gesù è tutto, che Lui solo basta a dare senso ad una vita, che voi siete i figli e figlie della sua Risurrezione annunciando già da ora il mondo che verrà, quando il Signore sarà tutto in tutti.

Anche noi ci presentiamo al tempio come Gesù e lo accogliamo tra le braccia come Simeone e Anna. Ci aiutano i fratelli e le sorelle ospiti di questa casa della divina Provvidenza sulla quale c’è uno sguardo particolare del Padre.

Anche noi guardando Gesù proclamiamo: ora lascia o Signore che il tuo servo vada in pace… perché è Lui luce della nostra vita.

+ Claudio Cipolla, vescovo di Padova

fonte: diocesipadova.it

Il Gruppo del Kenya sta crescendo

Il Gruppo del Kenya ha fatto un importante passo avanti  il 29 novembre 2019, quando Perpetua ha fatto la sua consacrazione a vita a Nairobi. Perpetua è stata la prima kenyana della Compagnia di Sant’Orsola. Nel 2011 ha contattato la Federazione con la domanda di iniziare questa scelta di vita. Nel 2012 la Presidente (allora Maria Rosa Razza) e il suo Consiglio accolsero la domanda di Perpetua.  La Presidente ha designato Mary cabrini Durkin, una Consigliera, a guidarla attraverso due conversazioni mensili con Skype e una visita annuale.

Il Gruppo è cresciuto. Eunice è entrata nel 2014 e ha fatto la sua prima consacrazione nel 2016. Leah ed Esther sono state accolte nel cammino iniziale nel 2018 e Jacinta ha iniziato il percorso di passaggio da una congregazione religiosa. Loro si incontrano mensilmente; Mary Cabrini si unisce attraverso Skype. Altre tre donne stanno facendo discernimento sulla loro vocazione.

Un canto gioioso e una danza hanno riempito la cappella del centro di ritiro Savelberg durante la recente cerimonia. Gli amici di Perpetua e i parenti hanno partecipato. Le sue sorelle l’hanno condotta all’altare. Mary Cabrini ha ricevuto la sua consacrazione come delegata di Valeria, ora Presidente della Federazione.

Padre Terry Charlton, S. J., è stato il celebrante della Messa. Le novizie delle sorelle Orsoline religiose, con la loro direttrice e Superiora Provinciale, hanno formato il coro, insieme ai membri della Compagnia.

Dopo la messa, più balli e molte risate hanno accompagnato un festoso pranzo.

L’impegno a vita di Perpetua pianta le radici della “vite” la Compagnia di Sant’Orsola, ancora più in profondità in Kenya.