Da “Avvenire – Luoghi dell’infinito” aprile 2019
Di ENZO BIANCHI
Scriveva Massimo il Confessore, grande teologo bizantino del VII secolo: “Colui che conosce il mistero della resurrezione conosce il senso delle cose, conosce il fine per il quale Dio fin dall’in-principio creò tutto”. Sulla scorta di questa penetrante osservazione che riguarda l’evento centrale del cristianesimo, il vero e proprio specifico della fede cristiana, è utile porsi una semplice domanda: perché Gesù è risorto da morte?
Sarebbe troppo sbrigativo rispondere che egli è risorto perché era Figlio di Dio, dunque ciò stava nell’ordine normale delle cose. Risposta vera ma parziale. D’altra parte, non è neppure sufficiente leggere la resurrezione come il miracolo dei miracoli: tale interpretazione contiene certamente una verità, perché la resurrezione è l’inaudito su questa terra, è ciò che contraddice la certezza universale secondo cui la morte è l’ultima parola sulla vita umana. Ma a mio avviso è ancora una spiegazione insufficiente…
Cerchiamo dunque di fare un percorso più approfondito. Nell’Antico Testamento la morte è il segno per eccellenza della fragilità umana. Ciascuno porta dentro di sé “il senso dell’eterno” (‘olam: Qo 3,11), l’ansia di eternità, e tuttavia è costretto a constatare l’inesorabile presenza della morte come ciò che contrasta fortemente la sua vita. Con uno sguardo naturalistico, si può anche ammettere che la finitezza umana sia in qualche modo una necessità biologica, come lo è per ogni creatura; ma tale giustificazione non spegne dentro di noi il sentimento che la morte, proprio perché non permette che qualcosa di noi rimanga per sempre, minaccia fortemente il senso della nostra vita: la morte è la somma ingiustizia! Ogni essere umano, “sotto il sole” (direbbe Qohelet), trova senso nella misura in cui sa vivere dei gesti che restano nel tempo: ma se tutto passa, se tutto finisce con la morte, che senso ha la nostra esistenza?
Qui entra in gioco la riflessione umanissima che ogni uomo e ogni donna fanno da sempre e in tutte le culture: vivere è amare. Tutti gli esseri umani percepiscono che la realtà indegna della morte per eccellenza è l’amore. Quando infatti giungiamo a dire a qualcuno: “Ti amo”, ciò equivale ad affermare: “Io voglio che tu viva per sempre”. Può sembrare banale ripeterlo e tuttavia resta vero: la nostra vita trova senso solo nell’esperienza dell’amare e dell’essere amati, e tutti siamo alla ricerca di un amore con i tratti di eternità. Ebbene, la grazia di un libro come il Cantico dei cantici posto al cuore delle sante Scritture consiste proprio nel fatto che in esso si parla dall’inizio alla fine di amore, di amore umano. A conclusione del Cantico si legge un’affermazione straordinaria. L’amata dice all’amato:
Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio,
perché forte come la morte è l’amore,
tenace come l’inferno è lo slancio amoroso.
Le sue vampe sono fiamme di fuoco,
una fiamma del Signore (Ct 8,6-7).
Qui si raggiunge una consapevolezza presente in numerose culture, che sempre hanno percepito un legame tra amore e morte (si pensi solo al celebre binomio greco éros–thánatos). La Bibbia, dal canto suo, ci illustra che amore e morte sono i due nemici per eccellenza; non la vita e la morte, ma l’amore e la morte! La morte, che tutto divora, che vince anche la vita, trova nell’amore un nemico capace di resisterle, fino a sconfiggerla. In altre parole, se è vero che l’Antico Testamento non ha pagine chiare e nette sulla resurrezione dai morti, al suo cuore sta però la consapevolezza che l’amore può combattere la morte. E questo non è poco!
Tenendo presente tale orizzonte, possiamo ritornare alla nostra domanda: perché Gesù è risorto da morte? Una lettura intelligente dei vangeli e poi di tutto il Nuovo Testamento porta a concludere che egli è risorto perché la sua vita è stata agápe, è stata amore vissuto per gli altri e per Dio fino all’estremo: “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine (eis télos)” (Gv 13,1), per riprendere il versetto giovanneo che apre la narrazione dell’ultima cena, contrassegnata dal gesto della lavanda dei piedi. Gesù è stato risuscitato da Dio in risposta alla vita che ha vissuto, al suo modo di vivere nell’amore fino all’estremo: potremmo dire che è stato il suo amore più forte della morte – quell’amore insegnato ai discepoli lungo tutto la sua vita (con tutta la sua vita!) e poi condensato nel mandatum novum: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 13,34; 15,12) – a causare la decisione del Padre di richiamarlo dalla morte alla vita piena.
Detto altrimenti, se Gesù è stato l’amore, come poteva essere contenuto nella tomba? È questa la domanda che si cela dietro le parole pronunciate da Pietro nel giorno di Pentecoste: “Dio ha risuscitato Gesù, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere” (At 2,24). Com’era possibile che l’amore restasse preda degli inferi? Davvero la resurrezione di Gesù è il sigillo che Dio ha posto sulla sua vita: risuscitandolo dai morti, Dio ha dichiarato che Gesù era veramente il suo racconto (exeghésato: Gv 1,18) e ha manifestato che nell’amore vissuto da quell’uomo era stato detto tutto l’essenziale per conoscere lui.
È in quest’ottica che possiamo comprendere anche il cammino storico compiuto dai discepoli per giungere alla fede in Gesù Risorto e Signore. Cosa è successo nell’alba pasquale, nell’alba di quel “primo giorno dopo il sabato” (Mc 16,2)? Alcune donne e poi alcuni uomini, discepole e discepoli di Gesù, si sono recati al sepolcro e l’hanno trovato vuoto: mentre erano ancora turbati da questa inaudita novità, hanno avuto un incontro nella fede con il Risorto, presso la tomba, sulla strada tra Gerusalemme ed Emmaus, ai bordi del lago di Tiberiade… Ed è significativo che Gesù non sia apparso loro sfolgorante di luce, ma si sia presentato con tratti umanissimi: un giardiniere, un viandante, un pescatore.
Di più, egli si è manifestato nella forma con cui lungo la sua esistenza aveva narrato la possibilità dell’amore. Per questo Maria di Magdala, sentendosi chiamata per nome con amore, risponde subito: “Rabbunì, mio maestro!” (Gv 20,16); i discepoli di Emmaus riconoscono Gesù nello spezzare del pane (cf. Lc 24,30-31.35), cioè nel segno riassuntivo di una vita offerta per tutti; il discepolo amato, che lo riconosce presente sulla riva del lago di Tiberiade, grida a Pietro: “È il Signore!” (Gv 21,7). In sintesi, la vita di Gesù è stata riconosciuta come un amore trasparente, pieno, e quelli che lo avevano visto vivere e morire in quel modo hanno dovuto credere alla forza dell’amore più forte della morte, fino a confessare che con la sua vita egli aveva davvero raccontato che “Dio è amore” (agápe: 1Gv 4,8.16).
Illuminati da questa consapevolezza, i discepoli hanno poi compiuto un cammino a ritroso, che li ha condotti a ricordare, raccontare e infine mettere per iscritto nei vangeli la vita di Gesù sulle strade della Galilea e della Giudea. Essi hanno compreso che Gesù aveva narrato l’amore di Dio con le sue parole, con la sua maniera di stare in mezzo agli altri, di incontrare i malati e gli emarginati, di perdonare la donna adultera (cf. Gv 8,1-11), di accettare il gesto d’amore della peccatrice (cf. Lc 7,36-50), di chiamare Giuda “amico” (Mt 26,50), proprio mentre per colpa sua veniva arrestato… E dopo aver raccontato tale amore per tutta la vita – fino a dire, sulla croce: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34) – avrebbe potuto restare preda della morte? Con la sua vita e la sua morte Gesù ha mostrato di avere una ragione per cui morire e, quindi, una ragione per cui vivere: l’amore per gli altri, vissuto quotidianamente e con semplicità, gratuitamente e liberamente, quell’amore che non può morire!
Sì, l’unico prezzo che il cristianesimo ci richiede per essere vissuto e compreso in profondità è quello dell’amore. Siamo cioè chiamati a immergerci nell’amore di Dio, quell’amore di cui canone, regola, forma è l’amore di Cristo, che ha speso giorno dopo giorno la vita per gli altri (cf. Gv 15,13): allora la nostra vita potrà avere un senso, una direzione, un sapore… Ecco perché, quando siamo incapaci di sperare nella resurrezione, è perché in verità non crediamo che l’amore possa avere l’ultima parola: credere e sperare la resurrezione è una questione d’amore, perché solo l’amore ha provocato la resurrezione di Gesù.
Forte come la morte è solo l’amore, più forte della morte è stato l’amore vissuto da Gesù Cristo: è questo che noi cristiani dovremmo annunciare, con umiltà e discrezione, a tutti gli uomini e le donne. Affermare semplicemente che “Gesù è risorto” è una bella notizia, ma troppo breve per essere davvero Vangelo per tutti gli esseri umani: come potrebbe riguardarli? Forse invece anche i non credenti sono interessati a percorrere un cammino nel quale si parta dal presupposto che l’amore è in grado di combattere la morte, fino a vincerla.
Ecco il senso profondo della resurrezione di Gesù, ecco come questo evento può parlare a tutti i nostri fratelli e sorelle in umanità.
Enzo Bianchi