APERTE ALLA MONDIALITA’
Aldo Giordano
Nel luglio del 2006, a Rocca di Papa, avevo già avuto la gioia di incontrare le partecipanti all’assemblea della Compagnia di Sant’Orsola. Sono contento di questa nuova occasione per vivere insieme un’esperienza di comunione. Le riflessioni che vi propongo in questi giorni riprendono con più calma anche alcuni temi che avevo già accennato in quell’occasione. Provo ad esplicitare il senso del tema che affrontiamo. Nella nostra ricerca di quale sia la presenza della testimonianza cristiana e della vita consacrata capace oggi di dare un futuro all’Europa e al mondo, occorre mantenere l’orizzonte grande e aperto. Infatti, se affrontiamo un problema specifico avvicinandolo sempre di più ai nostri occhi, il problema si ingigantisce sempre più, fino a coprire tutto l’orizzonte del nostro sguardo. Viene meno la luce. Se invece sappiamo allontanare un po’ il problema dai nostri occhi per collocarlo dentro il suo orizzonte, il problema si rimpicciolisce e si relativizza, situandosi nella rete a cui appartiene. In questo modo il nostro sguardo resta libero per vedere dove stanno veramente le radici del problema e dove siano le soluzioni possibili. L’orizzonte oggi in gioco per i problemi storici ed ecclesiali che dobbiamo affrontare è l’Europa ed è il mondo.Soprattutto l’orizzonte più aperto che dobbiamo tenere è quello del vangelo e della vita ecclesiale di comunione dei credenti: mi auguro allora che il nostro incontro non sia una mera riflessione teorica sulla mondialità e il ruolo del cristianesimo, ma sia anche una vera esperienza dell’essere Chiesa cattolica (universale) e dell’essere cristiani. Il Risorto ha promesso di “precederci in Galilea”, cioè di precederci là dove ci troviamo a vivere e ad andare. Quindi abbiamo questa grande certezza che il Risorto è qui fra noi oggi ed è già là dove il mondo è chiamato ad andare nel futuro: il Risorto ci precede e ci attende.
I. L’EUROPA E GLI ALTRI CONTINENTI
Rifletto su questa tematica dal punto di vista europeo.
- L’Europa e il villaggio globale
Non è facile dire cosa sia l’Europa. La parola Europa ha un contenuto geografico o storico o politico o economico o culturale? Neppure è facile dire cosa sia l’unità europea: nella storia abbiamo già conosciuto tentativi di unificazione: da Carlo Magno, a Napoleone, a Hitler stesso, ma ne conosciamo anche il fallimento o la pericolosità.
1. L’Europa è una realtà estremamente varia. Sono sempre sorpreso dalla varietà delle lingue che abbiamo nel nostro continente. Quando realizziamo l’incontro annuale dei 36 Presidenti delle Conferenze episcopali d’Europa dobbiamo constatare che parlano almeno 30 diverse madrelingue. Sono un centinaio le lingue europee (tra maggiori e minori) e questo esprime la gran complessità culturale che abbiamo nel continente.
- Sempre più scopriamo che l’Europa è definita sui suoi confini, sulle sue frontiere. L’Europa ha sempre vissuto sui limiti: tra la Grecia e l’Asia, tra Atene, Gerusalemme e Roma, tra il Sud e il Nord, tra l’Ovest e l’Est, sui confini con le Americhe, l’Asia, l’Africa… In realtà oggi nessuno sa con precisione dove stiano i confini dell’Europa. Non è del tutto chiaro quali siano i paesi che appartengono all’Europa. Pensiamo ai dibattiti in corso circa l’entrata della Turchia nell’Unione europea e sui rapporti dell’UE con i nuovi vicini di casa: a cominciare dalla Russia – che si sente europea, ma che se non accolta, si rivolgerà altrove, forse all’Asia – ai paesi dei Balcani, al nord Africa, fino a Israele.
- Fino a pochi anni fa un drammatico “confine” divideva l’est e l’ovest dell’Europa. Una enorme novità storica è stata il crollo del muro e il recente allargamento dell’UE verso l’est europeo che ha reso anche politicamente realistico pensare all’Europa a “due polmoni”, ma la realizzazione di un “bene comune” tra l’oriente e l’occidente europeo è ancora un compito in gran parte da compiere. La gran maggioranza dei popoli dei paesi dell’Europa centro orientale hanno ben presto preso coscienza che il crollo dell’impero comunista non significava immediatamente l’entrata nella “terra promessa”, ma piuttosto l’inizio dei 40 anni di deserto. Certo è meglio il cammino faticoso nella libertà, piuttosto che la schiavitù in Egitto.
I paesi dell’est sentono che a casa loro in particolare il problema della giustizia non è ancora risolto. Le proprietà e i beni confiscati dal potere comunista in realtà non sono stati restituiti semplicemente al popolo, ma nella maggior parte dei casi sono finiti in mani diverse. Nello stesso tempo la gente di queste terre deve affrontare, senza proprietà, la logica del libero mercato e della concorrenza capitalista che si fonda proprio sulla proprietà. Questa situazione ha creato un piccolo gruppo di vincitori che è riuscito a salire sul carro della nuova situazione economica, ma ha lasciato dietro molti perdenti, come di solito, i più deboli. Inoltre nella maggior parte dei paesi dell’Europa orientale è diffusa la paura circa il destino dei propri valori e della propria tradizione nel momento dell’incontro con la modernità occidentale e la cultura secolarizzata, favorito anche dall’allargamento dell’Unione Europea.
La caduta del muro nel 1989 ha permesso uno passaggio di persone prima impossibile tra l’est e l’ovest europei. In realtà l’afflusso nella parte occidentale di grosse quantità di popolazioni dell’est non è avvenuto subito dopo la caduta del muro nella misura che qualcuno sospettava, ma negli anni recenti è divenuto una realtà molto determinante. Significative comunità di rumeni o di ucraini, per esempio, vivono oggi in quasi tutti i paesi dell’occidente europeo. - Parlare di confini significa pensare l’Europa non come una fortezza, chiusa nell’interesse per il proprio bene, ma ad un continente che diviene più stabile per meglio realizzare lo scambio dei beni con le altre regioni della terra e contribuire alla giustizia e alla pace del mondo. In un epoca di mobilitazione universale e di collegamento globale, l’Europa può comprendersi solo nel suo legame con gli altri continenti. Il vero punto di interesse è il “bene comune universale” e non l’esclusivo bene di un solo continente. La più impressionante e determinante incognita è il confronto dell’Europa con l’Asia che sta divenendo sempre più velocemente protagonista sulla scena geo-politica-economica mondiale, soprattutto per l’andamento demografico della popolazione mondiale. Basta pensare a nazioni come Cina e India. In Cina abitano un miliardo e mezzo di persone. In India ci sono circa 50 milioni di studenti universitari. Il futuro della storia e anche del cristianesimo è legato all’Asia. Ci attende il confronto con culture millenarie che sono altre dalla nostra. In America Latina vivono circa la metà dei cattolici del mondo. Ho potuto partecipare ad Aparecida, in Brasile, ai primi giorni dei lavori della V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, iniziata il 13 maggio 2007 con la presenza e la parola di Benedetto XVI e conclusa il 31 maggio. Grazie soprattutto al cristianesimo c’è una “parentela” stretta tra Europa e America Latina. Essa va oggi approfondita. Le Chiese dei due continenti hanno sfide comuni: entrambe si sentono confrontate con il processo della globalizzazione, con le immense povertà e ingiustizie sociali, ma soprattutto entrambe si interrogano sul rischio di creare una società senza Dio, sul modo per conoscere e annunciare Dio, sul volto e il ruolo della Chiesa, sulla formazione dei credenti, sul significato della scelta preferenziale per i poveri, sul rapporto tra Chiesa e politica, sulla presenza nei mezzi di comunicazione. Sono queste le domande che il Papa ha affrontato nello storico discorso inaugurale della Conferenza di Aparecida.
Nel 2007 sono stato tre volte in Africa. Ho percepito quanto grande sia l’attesa degli africani di essere protagonisti della propria storia e di raggiungere anche come Chiesa un’autonomia anche economica. Un vescovo della Nigeria durante un incontro ha affermato:”verrà il giorno in cui noi africani potremo godere dei grandi beni che Dio ha dato alla nostra terra e io vedrò questo giorno!”. Questa grande aspirazione deve confrontarsi con il permanente bisogno della solidarietà da parte degli altri continenti, ma anche con un certo cinismo politico e economico internazionale che sembra pronto a lasciare morire l’Africa, mentre il mondo può andare avanti tranquillamente o meglio che è pronto a sfruttare le ricchezze dell’Africa senza che siano gli africani a decidere dei loro beni. I vescovi di alcuni paesi africani notavano anche che mentre i propri popoli stanno ancora soffrendo per gli esiti della vecchia colonizzazione, non si accorgono che stanno già cadendo in una nuova forma di colonizzazione: quella cinese.
Nel novembre 2004 abbiamo realizzato a Roma un simposio di vescovi europei e africani dedicato alla comune responsabilità soprattutto nei confronti della evangelizzazione e ora stiamo approfondendo la collaborazione attraverso una serie di seminari su temi di comune interesse: schiavitù, migrazioni, evangelizzazione.
L’Europa deve occuparsi del mondo, anche perché il mondo sta venendo in Europa, anche per la crisi demografica vissuta dal nostro continente. Le migrazioni stanno cambiando il volto di tutti i nostri paesi.
Nella recente assemblea ecumenica europea che abbiamo realizzato il 4-9 settembre 2007 a Sibiu (Romania) e che ha visto l’incontro di 2.500 delegati di tutti i paesi europei, ho percepito in modo chiaro e nuovo che la questione oggi determinante è proprio il mondo. Nella precedente assemblea ecumenica di Graz, dieci anni fa, nel 1997, questa dimensione non era ancora così evidente come oggi. Non mi ricordo che a Graz, per esempio, si fosse parlato della Cina o del terrorismo o del cambiamento climatico nei termini con cui affrontiamo oggi questi temi.
In sintesi possiamo dire che il nostro mondo sta riducendo sempre più velocemente lo spazio. Un tempo lo spazio era molto grande e il mondo era grande, adesso diventa sempre più “piccolo”: il famoso villaggio globale. Sono lo sviluppo tecnico, le comunicazioni, i fenomeni migratori che riducono lo spazio. Questo crea una situazione di tipo paradossale: quando il mondo era molto grande le differenze tra culture e popoli esistevano, però non facevano paura, perché erano lontane, non ci toccavano direttamente e c’era spazio per tutti. Le differenze apparivano “piccole”. In un tempo passato noi europei non sapevamo neppure che la Cina esistesse, quindi la Cina non costituiva un problema. Oggi i mercati e i politici sanno molto bene che la Cina esiste, perché il mondo è diventato piccolo e quindi la Cina gioca a casa nostra o noi giochiamo in casa della Cina. Se i musulmani fossero un popolo che abita in mondo lontano, non creerebbero domande, invece oggi abitiamo nella stessa casa e così scopriamo quanto siamo lontani, cioè diversi. Il paradosso sta nel fatto che l’essere molto vicini fa vedere quanto siamo lontani, diversi. Per questo la sfida della fraternità oggi è diventata molto più urgente di ieri. In un mondo molto grande potevamo essere anche meno fratelli, oggi abbiamo l’urgenza assoluta storica di fare una nuova scoperta della fraternità, altrimenti corriamo dei rischi enormi. Sono i rischi del terrorismo, dello scontro di civiltà, delle catastrofi belliche, della fame, della crisi energetica, del monopolio dell’acqua…
- Quale fraternità tra i popoli?
Ma di che tipo di fraternità abbiamo bisogno? Cerco di esplicitare il problema attraverso un racconto classico. E’ una pagina del famoso autore greco Eschilo, tratta dall’opera “I Persiani”. Essa ci presenta l’emblematico sogno della regina Atossa. Appaiono due donne, imponenti di statura e di incomparabile bellezza. Tra di loro c’é una lotta che Serse, il gran re, non riesce a sedare. Aggioga ambedue ad un carro, ma una accetta le briglie, docile, mentre l’altra si ribella, fa a pezzi le bardature, rompe il giogo, sbalza Serse dal carro. La donna che in vesti persiane segue il signore, il gran re, é l’Asia, la donna in vesti doriche é la libertà greca – l’Europa – suddita a nessuno. C’é tra loro una “stasis” (guerra) enigmatica: Asia ed Europa non sono solo belle e divine, ma sono realmente sorelle di sangue, della stessa stirpe. Abitano in terre diverse, ma una sola è la fonte: l’assolutamente distinto é anche inseparabilmente-uno.
Da una parte il mondo greco non sopporta il giogo imperiale dell’Uno solo, del tutto conglobante, dove le varie voci ed i volti non si possono distinguere e quindi domina la violenza uniformante che distrugge le libertà.
D’altra parte, l’affermazione della propria libertà e autonomia, del proprio strapparsi via da ogni giogo, di sbalzare ogni re dal comando, sfocia inevitabilmente nella separatezza inospitale, nell’inimicizia mortale anarchica. Secondo Eschilo, dormiente è l’Asia che sta sotto il giogo del Gran Re (l’Uno indistinto e totale) che impedisce ogni libertà e autonomia, ma dormiente è anche la Grecia (Europa) se dimentica l’origine, il logos (ragione) comune, perché perde la possibilità della costruzione di una polis, di una convivenza.
Questo mito di fondazione dell’Europa indica il problema che ha percorso i secoli ed appare ancora oggi irrisolto: come è possibile pensare insieme unità e distinzione, armonia degli opposti? Come impedire, da un lato, che nell’indistinto si dissolvano i nostri volti, le nostre forme e come impedire, dall’altra, la “stasis” (guerra) fra i distinti, le libertà e la loro frantumazione anarchica?
L’Europa dei secoli passati e di oggi ha certo tentato la via delle diversità, delle libertà, del pluralismo, ma ha anche sofferto e soffre drammaticamente la frammentazione. Fatichiamo a capirci ed a convivere per la varietà e diversità delle lingue, delle storie, delle culture, delle chiese, delle politiche, delle economie, dei saperi, dei valori… Come trovare un sentiero per non cadere nell’incomunicabilità, nel non-senso e nel conflitto violento? La risposta immediata è l’altra tentazione, cioè seguire la via della sorella che si sottomette al gran re: il totalitarismo sembra capace di superare la frammentazione ed il conflitto civile. Se i piccoli lupi si sbranano fra loro (homo hominis lupus) occorre affidarci ad un „grande lupo“ che abbia il potere assoluto e impedisca la distruzione reciproca (Hobbes). Ma la grande bestia costruisce i Lager, i Gulag per eliminare le diversità e le libertà! Il dialogo vero deve mettere insieme unità e distinzione, o meglio, realizzare un’unità che sia non distruzione, ma inveramento delle distinzioni.
Quale rapporto tra le persone, quale politica, quale fraternità è capace di rispondere al problema posto da questo racconto? Abbiamo bisogno di una fraternità che da una parte sia capace di fare di noi una convivenza, una polis, una città unica, ma dall’altra sia capace di costruire una “polis” non totalitaria, cioè una città, dove la persona sia rispettato, dove la persona sia libera e il volto di ciascuno possa realizzarsi. Abbiamo bisogno di una fraternità che ci renda un corpo sociale, una famiglia, e che insieme realizzi la libertà. Questo tipo di fraternità è una grande novità, perché nella storia abbiamo troppo spesso sperimentato il fallimento della fraternità. Anche la Bibbia è ben cosciente che la fraternità può fallire e che i fratelli possono uccidersi: Caino uccide suo fratello Abele; nella famiglia di Giacobbe i fratelli progettano di uccidere il fratello Giuseppe e poi lo vendono. Non qualunque fraternità funziona. Lo abbiamo sperimentato di recente anche in Europa. Sono stato spesso in questi anni nei Balcani, a Sarajevo. Cosa è successo in queste terre? Prima, un’ideologia collettivista, guidata da Tito, teneva insieme le differenze etniche, ma le libertà erano negate. Ad un certo punto le libertà dei singoli popoli (croati, sloveni…) hanno tentato di risollevarsi, di rompere il potere totalitario, di abbattere il “gran re Serse”. Ma invece della festa e della danza delle libertà si è caduti nella guerra fratricida. Abbiamo negli occhi le immagini della tragedia di Zrebrenica e di tanti altri paesi. Questo è successo nella nostra Europa, è successo a casa nostra. Anche le altre regioni del mondo conoscono queste tragedie, Pensiamo alla regione dei laghi in Africa. La fraternità può fallire, occorre un salto qualitativo di fraternità.
- Rimetterci insieme in ricerca.
Davanti a queste domande è urgente ancora una volta rimetterci in ricerca.
C’è un’opera teatrale in due atti molto conosciuta in Europa, “Aspettando Godot”, di Samuel Becket, che racconta di Vladimir ed Estragon, che stanno aspettando su una desolata strada di campagna il misterioso Godot. I due uomini, due disgraziati, vestiti quasi da barboni, si lamentano continuamente del freddo, della fame e del dolore; litigano e pensano di separarsi, ed addirittura al suicidio, ma alla fine non fanno mai niente, perché aspettano Godot, di cui si dice sia imminente l’arrivo. Passano i giorni e le settimane, ma Godot non viene. Oltre ai due protagonisti che spendono passivamente il loro tempo, nel racconto vi sono altri due personaggi: Pozzo e Lucky che invece compiono continui viaggi senza scopo per provare la loro esistenza. Pozzo, che si definisce il proprietario della terra sulla quale Vladimir ed Estragon stanno, è un uomo crudele, che tratta il suo servo Lucky come una bestia, tenendolo perfino per un guinzaglio. E insieme, con alterne vicende e personaggi che passano, attendono Godot, ma Godot non arriva. Un giorno arriva un giovane che dice: “Godot arriva domani”. Allora tornano il giorno dopo, ma Godot non c’è; torna quel giovane che dice “Godot verrà domani”, ma Godot non arriva mai. Passano i mesi e gli anni, i due sono sempre più disgraziati: uno è diventato cieco, l’altro muto, ma continuano sempre a tornare lì. Godot non arriva mai.
Quest’opera sembra di tipo comico, perché è un assurdo, ma a mano a mano che si legge l’opera, invece di ridere, viene da piangere. L’opera può essere un’amara metafora dell’umanità, forse anche di noi stessi: chi stiamo aspettando? Che cosa facciamo per riempire questa attesa? I due poveracci aspettano qualcuno, ma chi è Godot? E perché sprecare la vita senza senso?
Forse la nostra umanità è in ricerca, ma non sa chi cercare e non sa che cosa significhi vivere attendendo qualcosa, qualcuno. L’impressione è che in questi ultimi anni la ricerca sia aumentata, soprattutto come risposta ai drammi storici che i mass media hanno reso fenomeni planetari. Le persone cercano il verum, il bonum, il pulchrum, l’unum, cioè la verità, l’amore, la bellezza, l’unità. Le persone cercano lo scopo, il senso, la gioia, la felicità, la bellezza, l’amore, il bene. Cercano Dio. Per evitare una vana attesa di Godot, è importante fare emergere le domande che sono in noi: chi siamo? dove andiamo? cosa stiamo facendo nella vita? chi stiamo aspettando?
In questa nostra ricerca, puo’ essere di aiuto il brano di Genesi 32, 23-32: La lotta di Giacobbe con Dio.
“Durante quella notte Giacobbe si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici figli e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e fece passare anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». Giacobbe allora gli chiese: «Dimmi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel «Perché – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva». Spuntava il sole”
In questo testo ritroviamo alcuni spunti che si collegano alle domande della cultura europea di oggi.
- la notte: in Europa sembra stiamo vivendo una notte. Oggi percepiamo un senso diffuso di delusione, di smarrimento, di preoccupazione, di tristezza. Qualcuno parla di un tramonto della nostra cultura. Non possiamo far finta di niente, l’occidente vive una crisi profonda. L’ultimo libro di André Glucksmann, pensatore francese vivente, parla della “terza morte di Dio”. Siamo davanti ad un fatto mai accaduto nella storia: è un’intera cultura che è tentata di vivere senza Dio. Non si tratta solo di singole persone che vivono “senza” Dio, come succede in tutte le culture, ma di un specie di notte storica. E’ stato Giovanni Paolo II a parlare di una “notte oscura epocale”, riferendosi alla cultura occidentale: non sarà che quella notte dello spirito che i singoli santi, i mistici hanno vissuto, ora la stiamo vivendo anche noi, in maniera collettiva, in dimensioni epocali?
- la lotta: sembra che la cultura, l’umanità lottino e ricerchino, forse senza sapere contro chi si lotta. Eppure Dio è presente, Dio ci ferisce, ci trasforma, come ha ferito e trasformato Giacobbe in Israele.
- Dimmi il tuo nome: Abbiamo il compito di incontrare Dio e riconoscerlo: da parte nostra viviamo momenti drammatici di buio, viviamo in una cultura difficile, a volte ostile, però dobbiamo pensare che è una cultura, una storia, una umanità in lotta, che Dio vuole incontrare, su cui vuole mettere il suo sigillo e benedire.
II. LA SITUAZIONE INTERRELIGIOSA IN EUROPA.
- Pluralismo religioso in Europa
La nuova ricerca del vero, del bello, del buono e dell’uno avviene oggi in Europa all’interno di un chiaro pluralismo religioso.
Il cristianesimo
Gli europei (ca. 707 milioni, incluse le parti europee di Russia e Turchia) sono in gran maggioranza cristiani -560 milioni: 285 milioni cattolici; 161 milioni ortodossi; 77 milioni protestanti; 26 milioni anglicani; 11 milioni: altri 1 ma conosciamo la complessità di questo dato. L’Europa ha visto la prima inculturazione continentale del cristianesimo e ha avuto un ruolo fondamentale nell’evangelizzazione delle altre regioni della terra. Il Medioevo è il momento dell’affermarsi di una situazione di cristianità. L’Europa è stata anche il luogo del consumarsi delle divisioni all’interno del cristianesimo, esportate in seguito verso gli altri continenti. Lo sviluppo della modernità ha portato con sé la “crisi” della cristianità: dalla secolarizzazione, al secolarismo, all’ateismo, al nichilismo, alla “morte di Dio”, al ritorno attuale della domanda religiosa. L’est europeo ha vissuto decenni di ateismo di stato.
Con la caduta del muro del 1889 è cambiato anche lo scenario ecumenico europeo: il nodo fondamentale da sciogliere sembra stare nel rapporto tra la storia, la cultura e la tradizione dell’ovest e quelle dell’est. Alcune dolorose questioni, ereditate dal passato ed emerse ora con forza, come quella del proselitismo od il rapporto tra Chiese ortodosse e Chiese greco-cattoliche rimandano a questo confronto tra tradizione latina e tradizione orientale. Le Chiese dell’oriente europeo in genere si esprimono criticamente verso la cultura moderna tipica del mondo occidentale e temono questo incontro: cosa ne sarà della tradizione orientale, con i suoi valori e spiritualità, se finirà in braccio a un occidente moderno, secolarizzato e relativista? Le Chiese dell’est sembra abbiano individuato nel confronto con la secolarizzazione il nuovo problema da affrontare. Alle volte questa critica riguarda anche Chiese e comunità ecclesiali dell’occidente che si sarebbero adeguate alla deriva secolarizzata e relativista. Mi sembra che un contributo “ecumenico” molto serio per illuminare questa nuova situazione stia nell’affrontare oggi insieme (est e ovest) la questione della secolarizzazione.
Dal punto di vista cattolico nei rapporti ecumenici viviamo una sorta di paradosso: con gli ortodossi c’è grande vicinanza teologico-spirituale: la difficoltà teologica più grande riguarda la questione del primato. Ma c’è in realtà una distanza culturale, storica, psicologica. Essa è rivelata anche dalle incomprensioni sulle questioni del proselitismo e del rapporto tra ortodossi e greco-cattolici. Con le Chiese della Riforma, invece, c’è maggiore vicinanza culturale e storica, mentre ci sono maggiori difficoltà teologiche, soprattutto di tipo ecclesiologico: primato, successione apostolica, ministeri (ordinazione femminile), sacramenti (Eucaristia). Anche le questioni etiche spesso ci separano, specie quella riguardanti la bioetica o la famiglia.
Una realtà mondiale da considerare nel panorama cristiano mondiale e europeo è il diffondersi del cristianesimo pentecostale, delle chiese evangeliche o evangelicali, delle chiese libere. Questo tema riguarda tutti i continenti, con accentuazioni in America Latina e in Africa. Le statistiche parlano di 150 milioni di pentecostali in America Latina, senza contare i membri del movimento carismatico. Queste comunità e gruppi hanno spesso dinamismo, forza missionaria o capacità di proselitismo e in diversi paesi conquistano i loro fedeli anche dalla Chiesa cattolica: dal 1991 al 2000, in Brasile, la Chiesa cattolica è diminuita dal 83,3% al 73,9%; le chiese evangeliche sono aumentate dal 9% al 15.6% e i “senza religione” sono aumentati dal 4,7% al 7,4%. Naturalmente lo spettro pentecostale è molto ampio e complesso: va da chiese vere e proprie fino a esperienze fondamentaliste e anche settarie.
Per una riflessione sulla situazione del cristianesimo in Europa è indicativo il dibattito di questi anni sulle radici cristiane del nostro continente, in occasione della travagliata elaborazione del trattato costituzionale dell’Unione Europea. Il dibattito è stato particolarmente vivo, interessante, ma dal punto di vista del cristianesimo ha anche indicato una problematica di fondo. Perché non c’è stato consenso a citare Dio o il cristianesimo? Alcuni hanno pensato a una questione di privilegi, quasi ci fosse una torta da doverci dividere; alcuni hanno ritenuto che citare il cristianesimo sarebbe stato un torto alle altre religioni, specie all’Islam; altri che sarebbe stato un pericolo per la laicità… altri hanno difeso la tesi che la religione è un fatto esclusivamente privato.
La domanda che come cristiani ci poniamo è: “Gesù Cristo è venuto sulla terra per dei privilegi? Un Dio che muore in croce per amore è un rischio per i fratelli musulmani? Un Vangelo che distingue chiaramente tra ciò che si deve a Cesare e ciò che si deve a Dio è pericoloso per la laicità? Quale contenuto ha oggi in Europa la parola cristianesimo o la parola Dio o la parola religione? Perché la parola cristianesimo suona ad alcune orecchie pericolosa per l’Europa?Riguardo a questo tema si è tentata la via di trovare un consenso su un minimo comune denominatore, invece di cercarlo sul massimo. Si può ammettere in modo anonimo che l’Europa ha radici religiose, ma niente di più. Il dibattito non ha preso abbastanza in considerazione la serietà della questione della verità e del senso. Possiamo costruire un’Europa che non sia spazio di verità e di senso?
Ebraismo
Alle radici storiche dell’Europa appartiene l’ebraismo (2 milioni e mezzo). Il rapporto con esso è complicato dalla immane tragedia dell’olocausto e dalla attuale situazione in Medio Oriente. Occorre rilanciare un dialogo autenticamente teologico.
Islam
In Europa ci sono paesi di lontana tradizione islamica come Turchia, Albania, Bosnia Erzegovina, ma il fatto nuovo è la crescente presenza dei musulmani, legata soprattutto al fenomeno migratorio e dei rifugiati: circa 35 milioni (nel 1991 erano 12 milioni). In Francia si parla di 5 milioni di musulmani. Dopo l’11 settembre 2001, la crisi dell’intero Medio Oriente, il terrorismo, gli attentati di Madrid e di Londra, la reazione violenta alle satire su Maometto, il rapporto con l’Islam ha mostrato una forte dimensione politica. Nel mondo musulmano “europeo” c’è anche un chiaro pluralismo. Il pluralismo classico: sunniti e sciiti; il pluralismo legato ai paesi d’origine (Turchia, Magreb…). Oggi il pluralismo nasce dal diverso modo di rapportarsi con la società moderna: i rappresentanti del riformismo musulmano o dell’Islam dei “lumi” vede la possibilità di una inculturazione dell’Islam nella cultura europea, ma la maggioranza dei musulmani vede la cultura occidentale come qualcosa di ostile o degradata, che va combattuta.
Buddismo
In questi anni si registra in Europa un crescente interesse per il buddismo (2 milioni e mezzo / nel 1991 erano 270 mila). Il buddismo ha avuto una sua diffusione in Europa soprattutto grazie ai viaggi verso l’Oriente degli anni ‘70-’80. Questi viaggi hanno portato nel nostro continente numerosi maestri provenienti dall’Asia. Più recentemente, invece, è andato aumentando il numero di maestri nati in occidente. Ciò ha avuto come conseguenza, tra l’altro, di dare vita a nuove forme e tradizioni di buddismo, inculturato nel contesto europeo. Crescente anche il numero di cristiani europei che vengono attratti dal pensiero e dalla pratica buddista. Si affermano fenomeni come il sincretismo religioso o la doppia appartenenza.
Religione alternativa
Il cosiddetto ritorno del religioso o del sacro, nelle sue espressioni esoteriche, gnostiche, arcaiche, vitalistiche, pagane, paniche, mitiche è un altro protagonista della nostra cultura e storia. Si diffondono forme di neopaganesimo e movimenti filosofici (umanistici) che si organizzano quasi come comunità religiose e rivendicano i loro diritti. Se tentiamo uno sguardo sul futuro (pur senza essere profeti) vediamo che la dimensione del pluralismo religioso sarà sempre più forte, soprattutto pensando all’andamento demografico mondiale, allo sviluppo del fenomeno migratorio e alla globalizzazione.
- L’affermarsi del relativismo
Per arricchire il nostro sguardo sulla situazione religiosa in Europa vorrei fermarmi su un fenomeno che come un fantasma ha iniziato a girare per le strade dell’Europa e dell’occidente in questi ultimi tempi, ma in realtà ha radici più lontane: il relativismo. Siamo davanti ad una nuova trappola in cui rischiamo tutti di cadere. E’ una sfida da prendere sul serio perché è messa in gioco la verità stessa.
Il relativismo è l’ideologia che sostiene che non esiste nulla che abbia il carattere di assolutezza e di immutabilità, ma che tutto è “relativo” alle persone, al tempo, ai luoghi, alle concrete situazioni. Cioè: non ci sono un vero e un falso, un buono e un cattivo, validi universalmente e assolutamente, ma il vero e il buono, il falso e il cattivo possono mutare o essere diversi in quanto dipendono dalle epoche, dalle circostanze e in particolare dalla libera decisione dell’uomo. “Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie” 2.Questa ideologia è divenuta un modo di vivere, una prassi, che troviamo presente in molti ambiti e che ha diversi volti.
- Un primo ambito dove emerge la questione del relativismo è quello della morale o dell’etica. Il bene e il male sono realtà oggettive, assolute, non mutabili, oppure sono “relative” ai cambiamenti della storia, alla nostra libertà e decisione? Pensiamo al delicatissimo dibattito in corso sul tema della vita: sperimentazione su cellule staminali embrionali, clonazione, possibilità di generare embrioni ibridi o chimere (incroci tra uomo e animali), aborto, eutanasia. La vita della persona umana è un bene in se stesso, oggettivo, assoluto, non negoziabile, oppure il valore e la dignità della vita sono relativi alla libertà umana? Sono la libertà umana o le condizioni concrete di vita che possono decidere quando inizia e quando termina la dignità e il valore della vita? Sono questioni su cui ci giochiamo il futuro stesso della persona umana. In tanti incontri di vescovi europei a cui ho potuto partecipare ho visto che questa è una preoccupazione prioritaria.
- Se passiamo all’ambito del vivere sociale e della politica, si pone la domanda: i diritti e i doveri che sono alla base della convivenza, hanno un fondamento oggettivo, assoluto, razionale, oppure il loro contenuto si perde nell’anarchia delle interpretazioni perché è “relativo” alle diverse religioni, culture, filosofie, ideologie, economie? I diritti e doveri sono solo relativi all’esigenza pragmatica che gli uomini hanno di mettersi d’accordo su delle regole condivise per rendere il viaggio della vita sopportabile, con meno incidenti possibili? I diritti e i doveri hanno un valore in sé stessi oppure sono relativi alla decisione dei legislatori? Su cosa si potrebbe fondare un organismo universale come l’ONU se non ci fossero valori, diritti e principi stabili e universali che hanno il medesimo contenuto per tutta l’umanità? Come possiamo procedere nella costruzione dell’unità europea se non abbiamo valori, diritti e principi validi per tutti i paesi europei? Come trovare un fondamento che obblighi l’Europa all’assunzione di responsabilità per le grandi sfide planetarie come l’ambiente, la pace, la fame?
- Anche la domanda sul senso dell’esistenza umana può dissolversi nel relativismo. Oggi in Europa sono nuovamente e chiaramente udibili le domande esistenziali di fondo: esiste un senso oggettivo, stabile, assoluto al vivere ed alla storia, oppure non esiste “il senso della vita”, ma esistono piuttosto vari, piccoli e brevi sensi, relativi alla riuscita nella vita, al piacere, alle voglie, alle emozioni, alla fortuna, al destino? C’è un vero, un bene, un bello a cui posso affidare la mia vita in grado di rispondere al mio assoluto desiderio di vita, di felicità, di festa, di affetto e di eternità, oppure devo accontentarmi dei brevi, passeggeri, relativi, momenti di felicità e di amore che la vita può riservare? Il dolore e la morte sono l’ultima parola per l’uomo e come tali la relativizzazione di ogni mio desiderio, in quanto mostrano il finale non senso della vita? Non dobbiamo dimenticarci che ogni anno in Europa muoiono circa 50.000 persone per suicidio e che in una decina di paesi europei la più alta percentuale di morte dei giovani è costituita dal suicidio. Se il senso della vita è “relativo”, merita ancora vivere, quando la vita mostra la sua durezza?
- Il relativismo pone anche una domanda radicale al mondo del sapere e del conoscere. La ragione umana è capace di cogliere la verità della realtà, di conoscere le cose come esse sono veramente e oggettivamente, oppure la conoscenza del reale è relativa al punto di vista degli individui, dei soggetti, delle interpretazioni, delle sensazioni, delle correnti di pensiero? Ancora più radicalmente: la verità delle cose è relativa ad una singola scienza che pretende di dire tutta la verità della realtà? Pensiamo alla grande sfida nei confronti della concezione dell’uomo che viene oggi dalle neuroscienze che studiano il funzionamento del cervello umano e spiegano il cervello come un insieme di processi neuronali. In realtà non c’è nessun problema nel fatto che queste scienze spieghino in questo modo il cervello, anzi esse offrono un contributo importante per conoscere la persona umana da punto di vista biologico. Il problema nasce quando queste scienze non accettano di essere uno dei contributi per la conoscenza della persona umana, lasciando spazio per altri ambiti del conoscere, ma pretendono di dire loro tutto sulla persona umana. In questo modo le neuroscienze diventano una neurofilosofia o anche una neuroteologia che pretende di dire la verità totale dell’uomo. E’ questa neurofilosofia che, riducendo il cervello e la persona a meri processi biologici, vuole persuadere sulla visione solo naturalistica e materialistica dell’uomo, sulla non esistenza di alcun io, sulla negazione di ogni trascendenza del soggetto, sulla “misurabilità” e “manipolabilità” dell’uomo. L’uomo è una macchina che funziona così perché è fatta così. In questa visione la libertà, la colpa, la responsabilità divengono pura illusione. Soprattutto davanti a queste sfide si parla di una “nuova questione antropologica”: l’uomo in se stesso è messo in questione.
- Un campo evidente del regno del relativismo è quello dei media. Esistono oggettivamente i fatti, la realtà, i valori, la verità, oppure i fatti, la realtà, i valori, la verità, sono relativi ai media, in quanto sono creati dai media? I media sono a servizio dei fatti, oppure i creatori dei fatti? In questi giorni sono stato molto impressionato dalla lettura di un libro che mi era stato regalato da un amico nel novembre scorso a Nairobi. Una ragazza del Rwanda, Immaculèe, racconta la propria esperienza di sopravissuta all’olocausto del 1994 quando in 100 giorni sono stati sterminati un milione di persone per la violenza esplosa tra Hutu e Tutsi. La tragedia del Rwanda come è stata “un fatto” per noi europei? Essa è stata del tutto ai margini, perché è restata ai margini nei media. E quale storia è arrivata a noi? Solo la storia dello sterminio. Invece il libro di Immaculèe racconta anche un’altra storia: la storia del suo perdono per chi aveva assassinato quasi tutta la sua famiglia e aveva cercato in ogni modo di uccidere anche lei. Soprattutto Immaculée racconta la storia del suo rapporto con Dio in quei giorni di apocalisse. La medesima percezione l’avevo vissuta proprio a Nairobi: durante una cena avevo chiesta alla donna che sedeva davanti a me da dove veniva. Veniva da Kigali, proprio l’epicentro dei massacri in Rwanda. Subito io ho accennato a questa tragedia, ma la giovane signora ha replicato: è vero che Kigali è stato il luogo dell’inferno, ma io voglio raccontarti anche un’altra storia successa in quei giorni a Kigali e ha cominciato a raccontarmi di persone che piuttosto di uccidere si sono lasciate uccidere o pur di salvare la vita di qualcuno sono andate loro incontro alla morte. Anche a Kigali la vera storia era stata quella dell’amore. Quella dell’odio era stata la storia falsa.
- Non possiamo dimenticare la realtà della moda come un campo privilegiato dell’affermarsi del relativismo. Sembra un mondo più innocuo e più banale, ma quante volte dobbiamo constatare che il nostro agire non dipende da scelte guidate razionalmente da ciò che è bello, vero e buono, ma è deciso dalla moda: è “relativo” alla moda. Quante volte ci scopriamo pecore stupide dietro il gregge della moda e poi ci domandiamo perché siamo così stupidi! Mi hanno raccontato la coraggiosa e intelligente esperienza di una ragazza svizzera. Era andata a comprare un vestito. La commessa insisteva per un certo vestito e davanti alla reticenza della ragazza, anche un’amica si era alleata con la commessa. Alla fine le hanno chiesto perché non voleva acquistare quel vestito che per loro era tanto affascinante. “Non voglio questo vestito perché rispetto il mio corpo e perché amo il mio prossimo e non voglio provocarlo”, è stata la risposta.
- E in conclusione di questa carrellata di ambiti dove si vede emergere il relativismo dobbiamo riconoscere che proprio la realtà del pluralismo religioso che abbiamo considerato è uno degli ambiti del relativismo. In qualche modo si sta instaurando una gara tra le religioni per dimostrare chi ha la verità e chi ha il vero Dio. La verità e Dio stesso sono relativi alle diverse religioni?
III. Il CRISTIANESIMO COME “BUONA NOTIZIA” PER LE CULTURE E LE RELIGIONI.
In questa situazione quale via intraprendere per il futuro?
Ho potuto partecipare a Roma al funerale di Giovanni Paolo II”. Mi trovavo nelle prime fila della piazza, tra le delegazioni delle diverse nazioni. Quando la bara è arrivata sulla piazza si è creata un’atmosfera sacra. La bara è stata collocata tra il Cristo crocifisso e il cero pasquale: il papa sembrava scomparso e restava solo il Cristo crocifisso e risorto. Sulla bara è stato posto il vangelo, sfogliato ripetutamente dal vento e poi chiuso dalla parte del cuore del papa. Tutti abbiamo percepito la sfida a ripartire da ciò che è essenziale e che resta.
Al cuore del cristianesimo troviamo la Pasqua del Cristo. Da essa possiamo ripartire per “abitare” la nostra cultura europea e per ridare contenuto ai concetti di vero, bello e buono. Alla sequela del Cristo ci troviamo capaci di abitare in qualsiasi cultura, anche in quella segnata dalla morte di Dio e dalle sue conseguenze. Il Cristianesimo infatti ha nel suo cuore una „morte di Dio“, una notte – quella del Crocifisso – che sono andate ben aldilà di ogni proclamazione culturale del nulla o della „morte di Dio“. Nel perché del Cristo in croce (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”) troviamo la presenza di tutti i perché dell’uomo. Il Cristianesimo ha nel suo cuore la grande notizia della Risurrezione: la morte è stata vinta; i perché e le attese dell’uomo hanno una risposta; il Risorto “rimane fra noi fino alla fine dei tempi”.
Il Cristo crocifisso
“Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Alle tre Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: «Ecco, chiama Elia!». Uno corse a inzuppare di aceto una spugna e, postala su una canna, gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a toglierlo dalla croce». Ma Gesù, dando un forte grido, spirò. Il velo del tempio si squarciò in due, dall’alto in basso. Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo, disse: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!». (Marco 15,33-39)
L’Europa ha bisogno di riscoprire il Cristo crocifisso.
Negli anni ’80 ho visitato per la prima volta un campo di concentramento: Dachau, un inferno. A mano a mano che passavamo nelle sale del museo che testimoniano le atrocità dell’olocausto, il silenzio scendeva dentro. Uscendo dal museo, una ragazza che era con me mi ha chiesto: “Ma Dio dov’era quando succedevano queste cose?”. Io non ho tentato di rispondere a questa ragazza, ma siamo usciti fuori, sulla spianata del campo dove un tempo c’erano le baracche dei deportati e abbiamo percorso quel grandissimo spazio in silenzio. Risuona ancora nelle mie orecchie il rumore dei nostri passi su quella ghiaia bianca. Siamo entrati nel monastero di clausura che ora sorge alla fine del campo e abbiamo recitato l’ora media. Era l’ora media del venerdì e il primo salmo aveva come introduzione “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto”.(Is. 53,2) E poi seguiva il salmo 22 che inizia con la frase “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, il salmo del Cristo in croce. Ricordo che io e questa ragazza ci siamo guardati un attimo, non ci siamo parlati, ma abbiamo intuito dov’era Dio quando succedevano queste cose: Dio era crocifisso a Dachau.
Quando abbiamo iniziato la Seconda Assemblea Speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi (1 ottobre 1999), Giovanni Paolo II aveva fatto in apertura un’omelia che mi aveva impressionato in questo passaggio: “Egli, l’Emmanuele, il Dio-con-noi, è stato crocifisso nei lager e nei gulag, ha conosciuto la sofferenza sotto i bombardamenti, nelle trincee, ha patito dovunque l’uomo, ogni essere umano, è stato umiliato, oppresso e violato nella sua irrinunciabile dignità. Cristo ha subito la passione nelle tante vittime innocenti delle guerre e dei conflitti che hanno insanguinato le regioni dell’Europa. Egli conosce le gravi tentazioni delle generazioni, che si apprestano a varcare la soglia del terzo millennio: gli entusiasmi suscitati dalla caduta delle barriere ideologiche e dalle pacifiche rivoluzioni del 1989 sembrano essersi purtroppo rapidamente smorzati nell’impatto con gli egoismi politici ed economici, e sulle labbra di tante persone in Europa affiorano le parole sconsolate dei due discepoli sulla strada di Emmaus: “Noi speravamo…” (Lc 24, 21).”
Quando, fin da bambino, mi hanno parlato di Gesù Cristo mi hanno sempre parlato della croce: per me era normale che Dio in terra dovesse andare in croce. Quando poi ho iniziato a studiare filosofia questa idea mi ha stravolto: come è possibile pensare a un Dio in croce? Come è possibile pensare che l’onnipotente, l’eterno, il creatore delle cose si possa identificare con il crocifisso? Come è possibile dire che il figlio di Dio è in croce? Razionalmente siamo davanti a uno scandalo immenso! E quindi ho pensato che se il cristianesimo crede che il Figlio di Dio è stato crocifisso, vuol dire allora che questo è il cuore, il segreto di tutto e che da questa cattedra noi dobbiamo ripartire per capire e aver la luce.
Gesù muore in croce per amore del prossimo. In questo modo ci rivela che il nostro essere è costituito dal rapporto con l’altro. Non è il mio ego la misura di tutte le cose, perché il mio ego è nella sua essenza rapporto con il tu. Al posto del relativismo occorre riscoprire la relazione, il rapporto. Il comandamento di Gesù ha come oggetto una relazione, un rapporto: “amatevi…”. Oggi il campo è libero da assoluti ideologici, è il momento di scegliere l’amore. La verità cristiana non può allearsi con forme di potere violento, non può dare spazio a fanatismi, integralismi e fondamentalismi deviati e quindi non deve far paura a nessuno, perché nel suo culmine questa verità si rivela come il Figlio crocifisso che giunge a vivere l’abbandono per amore del prossimo. La verità di Gesù coincide col dare la vita per ogni persona, coincide con l’amore. E nessuno ha paura di qualcuno che gli dona la vita.
Gesù muore in croce per amore del Padre. E’ impressionante il fatto che il centurione ai piedi della croce comprenda che Gesù è il Figlio proprio nel momento dell’abbandono e dello spirare. Gesù vive la sua libertà come dono assoluto al Padre, perché questo è l’essere di Dio e così vive Dio: Dio è Trinità, un rapporto di Amore, dove ogni persona è dono senza riserve per l’altro. L’Abbandono di Cristo in croce vissuto per amore ci rivela che Dio è in sé stesso dono, amore. Il Figlio decide liberamente di vivere per il Padre, perché questa è la via per essere sé stesso, per essere “figlio”. Dio è una verità dialogica, interpersonale, non un essere solo, statico, immobile. In Dio c’è un pluralismo, una diversità che genera l’unità. Il dogma trinitario afferma che Dio è un’unica natura (ousia) in tre persone (ipostasi). L’amore trinitario è il luogo della realizzazione delle diversità, delle singole libertà, della ricchezza pluralista del reale.
Dobbiamo chiedere il dono di avere gli occhi per riconoscere la presenza di Gesù Crocifisso e Abbandonato. Il Figlio sulla croce entra dentro le lacrime e il buio dell’umanità e assume su di sé il dolore e la tenebra fino al dono della vita. Il Figlio ha raggiunto l’umanità là dove essa si trovava. Se l’Europa è caduta nella tentazione della separazione da Dio, il Figlio non ha abbandonato questa Europa, ma l’ha raggiunta proprio in questo abisso. Sulla croce ha sperimentato l’abbandono dal Padre per prendere su di sé l’abbandono sperimentato anche dall’uomo europeo. Il Cristo ha già dato la vita per la nostra Europa. Avere gli occhi del Crocifisso significa riconoscere la sua presenza “crocifissa” in tutti i dolori, le notti, i tradimenti che viviamo. Lui è già là. Lui è dentro la secolarizzazione e dentro il relativismo e sta realizzando un’opera di conversione del nostro modo di agire e pensare che porterà la sua novità. In una notte oscura epocale Dio non è assente, ma è presente crocifisso.
Ricordo un’altra esperienza: prima di iniziare a fare il segretario del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa, lavoravo nella mia diocesi e avevo chiesto al vescovo – insegnavo filosofia – di andare ad abitare insieme ad altri due confratelli e un sacerdote che si era ammalato di sclerosi multipla. Era un grande sportivo, andavamo in montagna insieme, ma la malattia da 15 anni lo sta progressivamente bloccando. Ricordo che un giorno don Gianni mi ha detto: “Io voglio fare una raccolta di gufi, gli uccelli della notte, perché ho letto in un padre della Chiesa che i gufi hanno occhi talmente grandi che riescono a vedere anche nella notte”. Adesso ha circa 2000 gufi: la notizia si è diffusa e tutti quelli che vanno in giro per il mondo, come faccio anche io, tornano a casa con un gufo di artigianato. Avere occhi per vedere anche quando c’è la notte, per scoprire che la notte ha i suoi colori, ha le stelle: di giorno non scorgiamo le stelle, ma se quando è notte abbiamo il coraggio e la forza per alzare lo sguardo, le vediamo. Questo è di nuovo un simbolo di chi è il Cristo crocifisso: è colui che diventa notte, diventa buio per darci la possibilità di vedere le stelle, anche quando c’è la sofferenza, l’abbandono.
Per intravedere un cammino proviamo a imparare dal Cristo in croce. Siamo invitati a seguire i suoi passi.
Il primo passo è avere il coraggio di seguire Gesù là, fuori le mura, fino al suo grido di abbandono, dove anche il cielo e la terra appaiono separati. Non si può stare a guardare i problemi, le ferite, le non riconciliazioni, dal di fuori, come spettatori o come arbitri, ma occorre entrare dentro le divisioni, i fallimenti per “comprenderli” fino in fondo.
Quel Dio entrato nelle ferite, diventa Lui separazione e ferita. Il Cristo accoglie in sé la ferita, l’assorbe e così la blocca. Quando esplodono conflitti, normalmente, l’uno trasmette all’altro il conflitto e l’uno scarica sull’altro la responsabilità. Il Cristo in croce non ha cercato il colpevole, ma ha assunto su di sé la divisione. Non ha cercato la soluzione in una mera giustizia legale. Il conflitto s’interrompe solo quando qualcuno non lo trasmette ad un altro, né cerca il colpevole, ma lo consuma in sé e ricrea l’unità col perdono.
Il Crocifisso che assume in sé la separazione e la ferita, diventa Lui uno spazio immenso, aperto, che è in grado di accogliere tutti, soprattutto chi porta nella vita la croce ed anche i lontani da Dio. Ogni uomo, in quanto toccato dal dolore e dal frutto del male, appartiene già al Crocifisso. Anche le persone che, nella sequela del Cristo, prendono su di sé le fratture, diventano luogo di accoglienza senza riserve. Noi siamo chiamati a divenire questa dimora accogliente senza frontiere.
Il passo culminante che emerge dal Crocifisso: la violenza, l’ingiustizia, non riescono alla fine a rubare la vita a Gesù, perché quella vita Gesù la dona per puro amore e non si può più rubare ciò che è già stato regalato. Il Cristo rivela che il senso della vita sta nel donarla. Il chicco di frumento nella spiga è una realtà bella, ma se non muore rimane solo. Se muore (dona la vita per amore) porta frutto e nasce la comunione.
Il Cristo Risorto
Gesù Risorto ci dice che lui è la verità, che è vero quello che aveva detto prima di morire e che nulla è finito con la morte.
1. Innanzitutto il Risorto appare a delle donne, che vanno di buon mattino al sepolcro, preoccupate per come rotolare via la grossa pietra. Arrivano alla tomba e la trovano vuota. La prima domanda è “ma dov’è?”. Cercano il cadavere, non si domandano dove sia lui vivo, anche se vedono che la pietra è rotolata, il sepolcro vuoto, le bende piegate, quei personaggi – che risultano essere angeli. Significativa la domanda del giardiniere: “Chi cercate?” Come a dire: “chi attendi, qual è la domanda profonda della tua vita?” Se cercate il crocifisso non è qui. La morte non è riuscita a rubare la vita. Se volete incontrarlo, non state vicino al sepolcro, ma andate in Galilea: andate dove c’è la vita, dove è la gente con tutti i suoi problemi. Gesù stesso lo aveva preannunciato: “Io vi precedo in Galilea”: questa è la luce! Gesù ci precede sempre, è già là dove noi siamo chiamati a non fare altro che servirlo.
- Il risorto si manifesta ai suoi, agli Undici (cfr. Giovanni 21): gli apostoli sono in riva al lago, disorientati. Pietro suggerisce di tornare alla loro vecchia vita di pescatori. Pietro li porta al largo, è notte, non prendono nulla. Spunta l’alba e vedono sulla riva del lago Gesù, il maestro. Gesù li accoglie e con grande concretezza e familiarità, prepara per loro un banchetto – che in realtà è il banchetto eucaristico. La nostra tentazione di andare a pescare per conto nostro è grande, ma poi improvvisamente ci accorgiamo che siamo immersi nella notte e che dobbiamo tornare all’alba, al Risorto, alla riva dove c’è lui.
Gli incontri del Risorto sono sempre passaggi dall’inquietudine alla pace, dall’incredulità al credere; tutti sono segnati dal dubbio che viene rischiarato e si apre alla fede. - Il Risorto fonda la Chiesa, impone le mani ai discepoli, dona lo Spirito Santo a Pietro, e gli chiede ““Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?” (Gv 21, 15). I discepoli sono inviati dal Risorto ad annunciare il Vangelo e a battezzare nel nome della Trinità.
- Un altro messaggio del Risorto è: “La pace sia con voi!”. Non è un annuncio teorico della pace, ma dice “la pace sia con voi, io sono la pace e io sono con voi”. Quindi la pace c’è, per il tuo cuore, per il tuo popolo.
- Questo Risorto promette solennemente: io rimarrò con voi, nella storia, fino alla fine dei tempi, fino al compimento della storia.
Dobbiamo chiedere il dono di avere gli occhi per riconoscere la presenza di Gesù Risorto. Il Risorto ha promesso di “rimanere fra noi fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). Avere gli occhi del Risorto significa allora vedere la Sua presenza e la Sua opera in Europa dove si proclama la sua Parola, dove si celebra la sua Eucaristia, dove ci sono due o tre persone che si riuniscono nel suo nome (Mt 18,20), cioè sono disposti a vivere quella carità reciproca che è il luogo della Sua presenza, dove ci sono persone che vivono l’amore lottando per la giustizia, per la solidarietà, per la pace, per il perdono, per la riconciliazione… Il Risorto è la verità cristiana. Il Risorto è il contenuto del vero, del bello, del buono attesi dal cuore umano.
Il Risorto è il verum, il bonum, il pulchrum e l’unum cercato e atteso dall’umanità.
IV. QUALE DIALOGO POSSIBILE? APERTE_ALLA_MONDIALITA”>
La presenza del Cristo Risorto fra noi realizza in modo compiuto la realtà del dialogo. E’ l’ora di approfondire questa realtà.
Perché il dialogo
- Il dialogo è innanzitutto necessario per la questione della pace e della convivenza tra i popoli. Gli eventi storici che stiamo vivendo, a cui già abbiamo accennato – dall’11 settembre del 2001 a New York, alla interminabile crisi dell’Irak, alla tragedia del Darfur, allo tsunami del sud-est Asia della fine 2004, agli attentati di Londra del 7 luglio 2005, alle satire contro l’Islam e alle violente reazioni dell’inizio 2006, alla fame che colpisce intere popolazioni … – mostrano in modo nuovo la grave responsabilità di trovare vie di incontro e dialogo.
- Anche il processo in corso della unificazione europea non è pensabile senza un nuovo dialogo, soprattutto fra le religioni e le Chiese e comunità ecclesiali.
- Ma c’è un’altra domanda molto seria che interpella le Chiese e richiede il dialogo: quella sul senso del vivere e della storia. Come possiamo rispondere alla domanda di senso di tantissime persone se come cristiani o uomini di religione ci mostriamo incapaci di dialogo o addirittura siamo in conflitto fra noi?
- Più radicalmente ancora: le Chiese e le religioni non sono credibili nel loro annuncio e testimonianza di Dio (del vangelo) se si presentano incapaci di dialogo. Esse favoriscono perfino la manipolazione del nome di Dio per violenze e ingiustizie. Come uomini di religioni, è molto doloroso il percepire come oggi nell’opinione pubblica spesso si unisce la parola religione alla parola violenza.
- E infine i cristiani devono ricordare che Gesù Cristo ci ha rivelato un Dio che è Amore/dialogo, ha generato un’unica Chiesa, ha svelato l’unica famiglia universale dei figli di Dio. Il Concilio Vaticano II (Unitatis Redintegratio, Nostra Aetate…), l’enciclica Ut Unum Sint (1995), la Novo millennio Ineunte (2001) e Ecclesia in Europa (2003) sono alcuni dei più autorevoli documenti magisteriali in ambito cattolico che testimoniano che quella dell’incontro e del dialogo è la via irreversibile della Chiesa.
Cosa non è il dialogo
Un altro passo che mi sembra utile è quello di liberare l’orizzonte da tanta confusione e dirci chiaramente cosa il dialogo non è.
Il dialogo non è il tatticismo che ha già giudicato la posizione dell’altro e sa dove lo vuole condurre. Non è la mera tolleranza, idealizzata dalla cultura laica, illuminista, razionale. Cosa significa “tollerare” la posizione dell’altro se la reputo vera? Non si “tollera” una posizione vera, ma si aderisce a essa! E che amico sarei se tollerassi la posizione dell’altro ritenendola sbagliata? Non si lascia cadere un amico in un precipizio, ma si fa ogni cosa per salvarlo! Il rapporto inteso come tolleranza non affronta la questione veritativa che è decisiva. Il dialogo non è neppure compromesso: se per andare d’accordo devo sacrificare o relativizzare la verità (o parte di essa) ed arrivare ad un uniformismo o un sincretismo o un livellamento che non salva l’interezza della verità, l’identità, le differenze e le libertà individuali, si segue una via che è violenta. Ancora: non è solo dare a ciascuno il suo: anche i cannibali si accordano nel dividere la preda per non sbranarsi a vicenda!
Per una comprensione “cristiana” del dialogo.
Per comprendere il dialogo con la luce della rivelazione cristiana, dobbiamo guardare molto in alto, cioè alla vita trinitaria stessa di Dio, come ci è stata rivelata in modo culminante nella Pasqua del Cristo. Cristo vive così, perché Dio vive ed è così. Dio è Amore, cioè reciproco e totale dono di sé o dialogo. Il Padre è dono per il Figlio ed il Figlio è dono senza riserve verso il Padre. Questo reciproco donarsi genera lo Spirito Santo, vera terza persona, vero „bene comune“, capace di garantire la diversità e libertà del Padre e del Figlio, ma insieme di realizzare la loro piena unità. La vita di Dio è continua generazione di una trascendenza, di una novità. Dio è insieme verità e amore, identità e dialogo, essere e relazione, unità e diversità, libertà e verità, perché è un “essere” trinitario dove la diversità tra il Padre ed il Figlio è vissuta totalmente come dono.
Un primo passo per realizzare il dialogo è avere coscienza della propria identità. Un fatto nuovo che stiamo constatando anche in Europa in questi ultimi tempi sulla scena del dialogo interreligioso e di quello ecumenico è proprio l’esigenza di chiarire, salvare e difendere l’identità e la verità della propria religione e della propria Chiesa. Questa esigenza vuole correggere il rischio di derive relativistiche o di posizioni troppo ireniche: un vero dialogo è possibile solo se si è coscienti della propria identità e se si instaura il problema veritativo. Tuttavia dietro questa forte esigenza di salvare l’identità può anche nascondersi il rischio di nuove chiusure in proprie fortezze isolate e autosufficienti e di un sospetto sul dialogo o anche sull’amore. Come non contrapporre o conciliare identità e dialogo, verità e dialogo, verità e amore? Come conciliare il compito dell’evangelizzazione, della missionarietà e la realtà del dialogo? Come accordare la fede in Gesù come unico Salvatore e la volontà salvifica universale di Dio? Come conciliare la singolarità assoluta di Gesù di Nazareth e l’esistenza delle varie religioni? Sono le questioni presentate con serietà dalla Dominus Iesus.
Un secondo passo per la realizzazione del dialogo è la scoperta dell’altro. Per questo tema mi riferisco brevemente a Emmanuel Levinas, pensatore morto poco tempo fa, ebreo, reduce del Lager di Auschwitz. Ho avuto la possibilità di incontrarlo alcune volte e ho letto le sue opere. Levinas “pensa” dopo Auschwitz e si domanda come si possa ancora pensare dopo questo inferno. Auschwitz è esito di un certo tipo di pensiero occidentale. Se non vogliamo ricadere in un baratro simile, dobbiamo cambiare modo di pensare, imparare a pensare diversamente. Il pensiero che ha portato ai Lager è quello “egologico”, cioè quello unilateralmente centrato sull’ego (io). L’io esce mai da se stesso e ingloba sempre l’altro in sé. Auschwitz sarebbe l’estrema conseguenza di un io (un Führer, una razza, un’ideologia…) che tenta di fagocitare l’altro. Se l’altro non accetta di entrare nell’io, si decide la sua eliminazione, anche violenta. Occorre uscire dall’egologia per trovare una nuova via. L’egologia è rappresentata dal mito di Ulisse che parte dalla sua isola Itaca, viaggia, gira e rigira, ma poi torna ad Itaca: parte dall’io e ritorna sempre all’io, conglobando in sé il mondo. Diverso è l’Abramo del racconto biblico. Anche Abramo deve partire, ma va verso un paese che è altro, che non conosce, senza ritorno all’io.
Secondo Levinas questo paese misterioso e sconosciuto è l’altro, “uno che tu non conosci”. Quindi il nuovo pensiero dovrebbe sostituire alla sovranità dell’ego quella dell’altro. Levinas ha pagine molto belle sull’altro: l’altro appare immediatamente nello splendore del suo volto; la grandezza dell’altro e anche la povertà dell’altro appare nel volto; il volto dice che l’altro è originale, che l’altro è unico. Se tu uccidi l’altro, in realtà uccidi te stesso, perché l’io è fondato dall’altro, non è l’io che fonda l’altro, ma l’io riceve sempre dall’altro la vita. Questo si può anche capire immediatamente: nessuno di noi è nato da se stesso, nessuno di noi ha deciso di nascere: altri ci hanno dato la vita. L’altro è costitutivo. Per capire chi io sono, devo sapere che c’é un altro, se io sono figlio vuol dire che ci sono anche i genitori: altri mi hanno originato. Ho sentito da Levinas questo commento al passo biblico dove si narra che Giacobbe viene a sapere che suo fratello Esaù – a cui aveva rubato con un inganno la primogenitura – gli sta venendo incontro con 400 persone armate. Nel testo si dice che Giacobbe è preso da paura e da angoscia, alla notizia che degli uomini armati gli vengono contro. Levinas si domanda: perché la Bibbia dice che Giacobbe ha paura e angoscia? Secondo la filosofia esistenziale c’è forte differenza tra paura e angoscia. La paura è sempre paura di qualcosa definito: la paura ha un oggetto identificabile: un leone, una persona, un fatto…. L’angoscia invece è una paura senza oggetto, è la paura del nulla, è la percezione di poter sprofondare nel niente. Perché Giacobbe ha paura e ha angoscia? Ha paura perché sa che nel combattimento lui può essere ucciso: ha paura di morire. Ma è angosciato perché sa che nel combattimento lui può uccidere suo fratello. Ha paura di essere ucciso, ma ha angoscia di uccidere il fratello: uccidere il fratello coincide col cadere nel nulla. L’altro è costitutivo di me. Al pensiero dell’ego, alla fortezza dell’ego, occorre sostituire l’altro, il volto dell’altro: l’altro è mio partner, l’altro mi costituisce; giocare con l’altro è la mia chance.
Ma il dialogo si realizza solo quando accade la reciprocità. Nella parola greca dia-logos, „dia“ indica distinzione, differenza, separazione: la distinzione è necessaria per un vero dialogo, non dobbiamo aver paura delle differenze che esistono a tutti i livelli. Ma nel dia-logos le differenze non diventano conflitto: il rapporto fra loro diviene lo spazio dell’accadere del „Logos“. Il logos è un discorso nuovo, è un rapporto, ma in ultima analisi il Logos, come sostiene il prologo di Giovanni, è il Figlio stesso di Dio che è diventato carne. Il Logos è il Risorto che “rimane” fra noi. Allora il dia-logos è un vero evento „ontologico“, è il luogo dell’accadere della verità stessa. Mi sembra particolarmente urgente il superamento del dualismo tra verità e dialogo per non cadere in posizioni integraliste in nome della verità o in posizioni relativiste in nome del dialogo. C’é una pagina del vangelo esemplare per descrivere questo evento del dialogo veritativo: i discepoli di Emmaus (Lc 24). Verso Emmaus camminano due persone che, nonostante la delusione, hanno ancora il coraggio di stare insieme. La loro interrogazione è sulla morte: lo hanno crocifisso, è finita e noi speravamo tanto. Il loro volto è triste e non hanno elementi per superare la loro tristezza. Alla fine sono dei „disperati“: avevano creduto, avevano sperato, ma ora sono disperati. Ma succede la novità: un terzo comincia a camminare con loro, commenta loro la Parola di Dio (diermeneusen) e li invita al suo banchetto. E’ questo terzo che fa comprendere: non basta essere dei bravi teologi! Quando il terzo, cioè la verità, Dio stesso, comincia a camminare con loro e “fa la teologia”, c’è la luce. I due torneranno nella comunità e si riscopriranno chiesa. Tra loro è accaduto il dialogo, il „dia-logos“. Il „dia“ tra loro due è stato il luogo dove il Logos ha parlato. Essi hanno vissuto un’esperienza di verità e questa verità ha coinciso con l’amore. Questo sarà anche ciò che essi racconteranno!
Vorrei ancora ridire questa tesi sul dialogo che ho cercato di comunicare, usando la categoria del gioco. In fondo il dialogo è come un gioco. Per poter giocare – pensiamo al gioco degli scacchi o del calcio od a qualsiasi gioco – cosa occorre? Innanzitutto occorre la voglia di giocare e la libertà di giocare: Se uno non fosse libero, ma costretto a giocare, non sarebbe più gioco. Anche per la prospettiva cristiana la libertà è fondamentale. Secondo: è necessario saper giocare. Occorre avere un’identità. Se non si sa giocare, per esempio a scacchi, si può anche avere voglia di giocare, ma non sarà possibile. Occorre imparare e più si sa giocare, più il gioco avviene a livello alto e interessante. Ma non possiamo fermarci qui. Un altro elemento decisivo per l’accadimento del gioco é la presenza dell’altro. Non si gioca mai da soli. Anche se oggi tanti come “altro” preferiscono un computer! Per l’altro che gioca con me valgono pure gli stessi criteri che valgono per me, cioè dovrà essere libero di giocare e dovrà saper giocare. Se l’altro fosse costretto non sarebbe un bel gioco e se l’altro non sapesse giocare dobbiamo prima di tutto insegnargli il gioco. Ma per questo dobbiamo anche stare particolarmente attenti, perché può darsi che l’altro sappia giocare in maniera diversa dalla mia e abbia stile e regole che io devo imparare. Spesso abbiamo l’orgoglio di ritenerci gli unici capaci a giocare. Solo quando siamo veramente allo stesso livello il gioco si fa interessante e divertente. Ancora un ultimo passo: in realtà alla fine scopriremo che non siamo noi che inventiamo il gioco, ma il gioco esisteva già. Se noi, insieme, decidiamo liberamente di giocare il gioco capita per noi, cioè noi diventiamo il luogo dove capita un gioco che esisteva già. Siamo presi dentro in un gioco che é più grande di noi: é il “gioco” della verità stessa, della presenza del Risorto fra noi.
La vita consacrata come laboratorio di dialogo e di amore
- Il dialogo e l’amore realizzano un’unica famiglia tra tutti i popoli, culture, etnie…La famiglia universale dei credenti è la cattolicità. Nel suo senso più ampio la cattolicità è la possibilità di realizzare una comunione universale, un’unità, senza alcun tipo di frontiera, in modo che le differenze non siano cancellate, ma piuttosto si realizzino nella loro identità. Cattolicità significa universalità. E’ urgente approfondire questa appartenenza alla famiglia universale del cristianesimo per correggere derive nazionalistiche e rispondere alle sfide della globalizzazione e della pace..
- Il dialogo e l’amore sono il vero motore del cammino ecumenico. Oggi tra le Chiese e le comunità ecclesiali non esiste la condivisione di fede sufficiente per celebrare l’Eucaristia insieme, ma nulla ci impedisce di vivere insieme il vangelo, la carità, la collaborazione, la solidarietà. In questo modo si crea lo spazio per la presenza fra noi del Risorto. Nonostante le situazione difficili che tutti conosciamo, vediamo all’opera il Risorto. L’ecumenismo è uscito dalle strutture istituzionalizzate, dalle facoltà, da cerchie ristrette di pionieri e sta diventando un’esigenza di tanti cristiani d’Europa, un fatto “normale” e questo indica che è iniziata una nuova fase del cammino di riconciliazione. Se l’Europa ha esportato nel mondo le divisioni, ora ha la responsabilità di esportare la riconciliazione ritrovata.
- Il dialogo e l’amore sono capaci di far incontrare le religioni. Nella Chiesa questo tema è stato affrontato da decenni, ma la novità è che esso, ora, è affrontato anche dalla politica, dai governi, dalla società civile. Questo può avere un lato positivo, ma contiene anche il rischio che le religioni si ritrovino il dialogo fra loro come un’imposizione, secondo criteri politici, cioè esterni al fatto religioso. La Chiesa deve riprender in mano questo dialogo alla luce della sua grande esperienza. Per realizzare questo senza equivoci o pericolose superficialità, è giunto il momento dell’approfondimento. Se tra persone di diverse religioni si approfondisce la conoscenza, la stima, la collaborazione, la propria identità, la carità, il Risorto può agire.
- Nonostante tutti i sentieri interrotti, smarriti o anche devianti che l’Europa ha intrapreso, essa ha prodotto enormemente nel campo della cultura, del pensiero, della scienza, dell’arte ed è stata anche il luogo in cui la cultura si è lasciata rinnovare dal cristianesimo. Nell’Europa ci sono idee impazzite, ma ci sono idee! La nostra responsabilità è di ridare ordine, unità e senso a queste idee. La vita consacrata può ispirare la grande opera educativa e culturale di ridare ordine alle idee dell’Europa.
- Se la carità vissuta è il luogo dove il Risorto prende dimora fra di noi, il cielo azzurro resta aperto sui nostri paesi, sulle nostre famiglie e le nostre vite. Il Risorto ci dice che esiste l’eternità, il paradiso e quindi la vita va considerata alla luce dell’eternità e non solo degli anni che passiamo su questa terra. Il Paradiso è la nostra vera casa. Questa prospettiva dell’eternità dà una luce nuovissima a tutta la vita e al nostro servizio.
Il giorno precedente i funerali di Giovanni Paolo Il ero già a Roma e sono andato in Vaticano per vedere se potevo entrare per pregare accanto alla salma del papa. Mi trovavo davanti alla porta S. Anna quando una giovane ragazza “nera” mi si è avvicinata e mi ha detto: “mi accompagni a vedere il papa!”. Ho sorriso e risposto: “ci sono forse due milioni di persone che vorrebbero vedere il papa” e anch’io probabilmente non posso entrare. Lei ha insistito: io voglio bene al papa e voglio vederlo e non posso più fare la fila, lei può portarmi dentro!”. Sono stato sorpreso dal suo candore e dalla sua “fede” nei miei confronti! Ho detto a lei e alla sua amica di provare a seguirmi: siamo riusciti a entrare nella basilica, superando i controlli delle guardie svizzere. Alla fine mi hanno ringraziato commosse. Ho detto loro: “forse non ci incontreremo più sulla terra, ma ci diamo l’appuntamento per il paradiso”. Mi hanno guardato con sorpresa e gioia e poi mi hanno riposto: “allora arrivederci in paradiso e lei in paradiso ci va certamente, per il regalo che oggi ci ha fatto”! Il Paradiso compie le nostre esperienze del vero, del bello e del buono che già sperimentiamo su questa terra.
- In una preghiera, scritta da Chiara Lubich, di fronte al tabernacolo lei si domanda: “Perché tu Dio, che hai trovato il modo di lasciarci tuo figlio nella Parola, nell’Eucaristia, non hai trovato il modo di lasciarci anche Maria? E ho avuto l’impressione che una voce dal tabernacolo mi dicesse: non l’ho voluta lasciare perché la voglio rivedere in te. Tu sarai madre dell’umanità, tu continuerai l’opera di Maria sulla terra”. Questo vale soprattutto per le persone consacrate nel mondo. Non c’è Maria fisicamente sulla terra, ma Dio guarda alle persone consacrate e ci dice “la voglio rivedere in te”.
“Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa”. (Gv 19). Gesù sulla croce, nelle sue ultime parole, affida a Maria il discepolo e Maria al discepolo. Anche se noi qualche volta ci dimenticassimo di prendere “a casa nostra” Maria, possiamo essere sicuri che Maria non si dimentica mai di prendere a casa sua noi. Questo “Donna ecco tuo figlio”, per Maria è molto serio.
Maria è la donna discepola, la donna della fede, la credente, colei che più di tutti ha vissuto Dio come verità, bontà e bellezza.
Auguro a ciascuna di voi di essere madri come Maria e di saper creare dei laboratori di paradiso per riportare al Padre quel pezzo di mondo che ci è stato affidato..