Angela Merici la Giuditta del suo tempo
Condividiamo un interessante contributo alla riflessione offerto da un sacerdote a una Compagnia … e dalla Compagnia a tutte noi.
Il Libro di Giuditta
Nella Bibbia troviamo alcuni libri che portano il nome di figure femminili, come Ester e Ruth. Anche Giuditta si colloca in questa genealogia: Giuditta è la terza donna a cui viene dedicato un libro dell’Antico Testamento. Del libro noi possediamo solo la versione greca, mentre il manoscritto ebraico probabilmente è andato perduto. La data di composizione è da collocarsi attorno al 100 a.C.
Genere letterario: il libro non è una vera e propria storia, come si rileva dalla deliberata indifferenza per le precise informazioni storiche e cronologiche. È piuttosto una “novella edificante”; verso il 150 a.C. la letteratura dei Giudei oscillava tra due generi letterari principali: “il midrash haggadico” (racconto edificante su uno spunto offerto da un episodio o da un testo biblico); e la “visione apocalittica”, in pratica la descrizione del trionfo sicuro di Dio su tutti i nemici, ultima forma della profezia. Il Libro di Giuditta oscilla tra l’uno e l’altro.
Un uomo fatto dio
Nel libro si racconta come un re assiro, con un nome chiaramente babilonese (già qui: un equivoco storico!), Nabukadnezzar (meglio conosciuto come Nabucodonosor), dopo aver sconfitto il suo rivale politico, il re dei Medi Arfacsad, rivendichi il dominio sul mondo intero. Per questo manda Oloferne, generale in capo di tutte le sue truppe, a conquistare tutti i paesi della terra e a instaurare a ferro e fuoco il suo dominio. Durante la campagna militare Oloferne distrugge non solo le città, ma anche i templi e gli idoli dei nemici perché: «tutti i popoli adorassero solo Nabucodònosor, e tutte le lingue e le tribù lo invocassero come dio» (Gdt 3,8).
Giuditta incarna la nazione giudaica (il nome “Giuditta” significa “la giudea”), il popolo eletto da Dio (=che ha contratto un’alleanza), stabile nella sua fedeltà a Jahwé, praticante la sua legge e puro da ogni inquinamento d’idolatria. Infatti, l’autore del Libro esalta la fierezza religiosa del popolo di Dio al cospetto dei suoi nemici, e al contempo, mette in risalto le risorse di Jahwé, che si serve per le sue opere grandi di umili e semplici strumenti qual’è Giuditta, una donna…
Così tutto ci orienta a cogliere la lezione religiosa: il popolo di Dio vince sul nemico anche per mano di una donna, se rimane “popolo di Dio”, come Giuditta lo rappresenta, scrupolosa osservante della Torah, fiduciosa in Dio, e perciò sempre in preghiera.
È notevole anche la prospettiva universalistica della salvezza: la vittoria d’Israele non vale solo per se stessa, ma è segno per tutti i popoli: non per nulla il senso religioso della guerra è colto da Achior, un Ammonita che poi si converte; e la salvezza di Gerusalemme è assicurata dalla città di Betùlia (=la casa di Dio), collocata in quella Samaria che i rigoristi del Giudaismo non stimavano affatto.
La resistenza
Di fronte all’esercito di Oloferne oramai giunto alle porte della cittadina israelitica di Betùlia nelle montagne di Samaria, il popolo di Giuda, sotto la guida del sommo sacerdote Ioiakim, si organizza per la difesa e chiede l’aiuto di Dio digiunando e pregando (Gdt 4). Oloferne davanti a questo atteggiamento reagisce con sdegno e ira (5,2-4). Allora l’ammonita Achior spiega che questo strano popolo è sorretto da un Dio che «odia il male» (5,17) e che perciò, se non si macchia di peccato, è invincibile. Infuriato per queste parole, Oloferne professa che non c’è altro dio al di fuori di Nabucodonosor. Anzi «questi manderà il suo esercito e li sterminerà dalla faccia della terra, né il loro Dio potrà liberarli” (6,2). Dopodiché fa esporre Achior sul monte vicino a Betùlia e lo abbandona nelle mani degli Israeliti. Cinge d’assedio la città, impedendo ogni approvvigionamento d’acqua (7,1- 18), la quale presto in città viene a mancare quasi del tutto; e gli abitanti tormentati dalla sete chiedono ad Ozia e ai capi della città di dichiarare la resa della città (7,19-29). Ozia sta per cedere ma decide di darsi solo altri cinque giorni, fidando nell’intervento di Dio: «Coraggio, fratelli, resistiamo ancora cinque giorni e in questo tempo il Signore, nostro Dio, rivolgerà di nuovo la sua misericordia su di noi…» (7,30-31).
La forza morale di Giuditta
A questo punto entra in scena Giuditta, figlia di Merari e vedova di Manasse. Una donna dall’aspetto affascinante, ricca e pia (8,1-8). Sentite le intenzioni dei capi di resistere solo per altri cinque giorni e di arrendersi poi all’invasore, Giuditta fa convocare presso di sé i responsabili della città. Li esorta a non tentare Dio, a non mettersi al di sopra di Lui:
«Voi volete mettere alla prova il Signore onnipotente, ma non comprenderete niente, né ora né mai…. E voi non pretendete di ipotecare i piani del Signore, nostro Dio, perché Dio non è come un uomo a cui si possano fare minacce, né un figlio d’uomo su cui si possano esercitare pressioni» (8,13.16).
Quindi li invita a confidare in lui: «Perciò attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui, supplichiamolo che venga in nostro aiuto e ascolterà il nostro grido, se a lui piacerà» (8,17).
Al termine del suo discorso Giuditta si offre volontaria per una missione che però non svela:
«Ascoltatemi! Voglio compiere un’impresa che verrà ricordata di generazione in generazione ai figli del nostro popolo. Voi starete di guardia alla porta della città questa notte; io uscirò con la mia ancella ed entro quei giorni, dopo i quali avete deciso di consegnare la città ai nostri nemici, il Signore per mano mia salverà Israele» (8,32-33).
Giuditta da Oloferne
Prima di partire per l’accampamento nemico, dopo essersi prostrata con la faccia a terra e con il capo sparso di cenere, Giuditta implora Dio che le dia forza: «La tua forza non sta nel numero, né sugli armati si regge il tuo regno: tu sei invece il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (9,11). Indossa le vesti più belle, si orna nel migliore dei modi ed esce con la serva.
Spacciandosi per transfuga entra nell’accampamento di Oloferne dove è da tutti ammirata per la sua bellezza radiosa (Gt 10). Oloferne ne rimane sopraffatto e le promette di realizzare ogni suo desiderio purché acconsenta di dormire con lui (12,17). Al quarto giorno Oloferne fa preparare un banchetto al quale invita Giuditta ma non i suoi ufficiali. Durante il ricevimento il generale si ubriaca. Mentre dorme nella tenda in cui ci sono solo lui e Giuditta, questa afferra la spada e gli mozza la tesa. La mette, quindi, in un sacco e corre veloce verso la città di Betùlia, dove mostra al popolo la testa del nemico d’Israele. Il popolo, fuori di sé, loda in coro Dio: «Benedetto sei tu, nostro Dio, che hai annientato in questo giorno i nemici del tuo popolo» (13,17); e Ozia tesse le lodi di Giuditta: «Benedetta sei tu, figlia, davanti al Dio altissimo più di tutte le donne che vivono sulla terra e benedetto il Signore Dio che ha creato il cielo e la terra e ti ha guidato a troncare la testa del capo dei nostri nemici… Dio faccia riuscire questa impresa a tua perenne esaltazione, ricolmandoti di beni, in riconoscimento della prontezza con cui hai esposto la vita di fronte all’umiliazione della nostra stirpe, e hai sollevato il nostro abbattimento, comportandoti rettamente davanti al nostro Dio» (13,18.20).
Il mattino seguente gli Assiri trovano il cadavere decapitato di Oloferne e presi dal panico si danno alla fuga. Gli abitanti di Betùlia saccheggiano l’accampamento nemico e raccolgono un grande bottino. Giuditta è esaltata da tutti: «Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu magnifico vanto d’Israele, tu splendido onore della nostra gente» (15,9) e finché visse, nessun nemico osò attaccare Israele (16,25).
A che pro questa storia?
Ai nostri occhi una donna che mozza il capo a un uomo può suscitare un’impressione truculenta e scandalosa, ma si deve ricordare che il libretto non vuole essere un resoconto di fatti storici precisi, bensì l’esposizione di un dato che va’ al di là della storia stessa, intesa come mera cronaca di quanto avviene. Il testo si presenta perciò come uno scritto didattico rivestito con una narrazione storica, che intende mostrare quali siano le potenze in gioco e le forze che determinano il corso degli eventi storici.
Il forte e crudele Oloferne è espressione di una super-potenza mondiale sicura di se stessa e nemica di Dio; di fronte a lui è posta, non a caso, una donna segno della fragilità e della debolezza, che rappresenta il piccolo popolo oppresso di Israele. Lo scontro diventa quindi scontro tra bene e male, tra chi confida unicamente sulla sua potenza e chi invece sulla potenza di Dio, senza confini di tempo e di luogo. Questo motiva la presenza di numerose incongruenze storiche e geografiche e l’autore è libero di usare nomi e dati storici con grande libertà.
La vicenda di Giuditta esprime un insegnamento che potremmo riassumere con le parole di san Paolo:
«Quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio.» (cfr. 1 Cor 1,27-29).
Secondo le parole stesse del libro, la donna fu uno strumento della salvezza.
Avendo procurato la salvezza e la liberazione del popolo di Dio votato alla distruzione, per i Padri della Chiesa Giuditta è prefigurazione di Maria. Nel saluto che nel vangelo di Luca Elisabetta dà a Maria: «Benedetta più di tutte le altre donne», riecheggia la lode di Ozia a Giuditta: «Sei benedetta da Dio, l’Altissimo, più di tutte le altre donne della terra» (13,18).
Una donna che ci provoca, come ci ricorda la teologa Lidia Maggi:
«Dio, in questa storia, a dire il vero, sembra essere il grande assente, nonostante il suo nome riempia quasi ogni capitolo. Giuditta, che pure lo nomina e lo adora, non prega mai per chiedere a Lui consiglio: essa decide in piena autonomia, senza informare il popolo, disinteressandosi all’ascolto di ciò che Dio ha da dirle. Questo tratto, che sembra mettere in cattiva luce la fede della nostra eroina, è ciò che più mi attrae della vicenda.
Giuditta si assume la piena responsabilità delle proprie azioni. Non ha la pretesa di conservare la sua integrità personale, anche se alla fine si tutela dichiarando di non aver avuto rapporti intimi con il nemico. In situazioni estreme – sembra suggerire questo racconto – la differenza tra il bene e il male richiede un ulteriore discernimento, rispetto a quello fornito dalla Legge. Non basta, cioè, attenersi al “non uccidere”; occorre rischiare ed agire per far fronte ad una situazione drammatica, che produce morte. Nel rileggere la vicenda narrata nel libro di Giuditta, vengono alla mente alcune riflessioni del pastore luterano Dietrich Bonhoeffer. Il quale, nonostante le sue convinzioni nonviolente, si ritrovò a partecipare ad un attentato contro Hitler, convinto che quello fosse il male minore. Le alterne vicende storiche domandano al credente un’assunzione di responsabilità in cui la fede domanda intelligenza, astuzia, rischio. E soprattutto una radicale messa in gioco della propria persona».
Giuditta: icona per S. Angela e la sua compagnia
- Un tratto fondamentale dell’identità della figlia di Sant’Angela è la verginità:
«ogn’una che haverà a intrare o esser admessa in questa Compagnia, debba esser vergine et habbia ferma intentione di servir a Dio in tal sorte di vita» (Reg, I). L’elemento innovativo della verginità nella Compagnia di Sant’Orsola consiste nel fatto che mentre la verginità doveva essere custodita nelle forme tradizionali del convento o dell’autorità familiare, Angela lascia le sue figlie nel mondo dando loro la responsabilità di gestire la propria condizione di vergini. «In questo senso la figura mericiana di vergine minava il sistema familiare e la concezione tradizionale dell’onore femminile. La scelta di Angela va spiegata in relazione al significato simbolico della verginità proprio della sua epoca. In una società che definiva le donne attraverso la sessualità, che non le riconosceva come soggetti a pieno titolo, e che le scambiava tra le famiglie per rinforzare il lignaggio, la vergine era un tipo di donna potenzialmente indipendente, in quanto fuggiva gli scambi matrimoniali e non rientrava nei ruoli sociali tradizionali. La vergine era un tipo di donna potente perché la verginità liberava la donna dal dominio maschile e dai legami secolari». (Querciolo Mazzonis, Angela Merici e la compagnia di sant’Orsola delle origini)
Responsabilità personale, riferimento a una figura di donna forte, libera dai legami e dal dominio maschile (anche ecclesiastico): tutti elementi che portano Angela a fare riferimento alla figura di Giuditta, figura carica di connotati virili ed eroici:
«… siamo chiamate a tal gloria di vita, che spose del Figliol di Dio siamo, et in ciel regine diveniamo. Però, accorte e prudenti qui esser bisogna; imperò che tanto mazzor faticha et pericolo li convien che sia, quanto la impresa che se fa è di mazzor valore; perché non è sorta di male che qui non ce sia per opponersi […] Horsù valente, adonque, tutte abbraciamo questa santa Regola, che Dio per sua gratia ne ha offerto. Et, armate de gli suoi sacri precetti, vogliamosi così virilmente diportare, che ancor noi, a modo dela santa Judith, tronchata animosamente la testa d’Oloferne, cioè del diavolo, gloriosamente alla patria ritornar possiamo» (Reg, Prologo).
Che questa interpretazione della consacrazione andasse contro la concezione del tempo, emerge chiaramente dalle reazioni alla compagnia dopo la morte di Angela e riportate in una lettera del Cozzano:
«Que Compagnia la è, che ognun se ne mena beffe? Frati, preti, specialmente, et altre persone savie […] Et meritatamente quella sor Angela esser vituperata, che habbia sollecitato tante vergini a prometter verginitade, senza un risguardar dove la le lassava nelli perigoli del mondo […] Et che pensavela di fare? Di imitar ancor lei un santo Benedetto, una santa Chiara, un santo Francesco. Anzi ancor ella ha volesto esser da più, et pensava, assegurandose, a poner vergini in mezzo del mondo, cosa che mai ardite alcun de patriarchi».
I forti connotati ispirati ad Angela dalla figura di Giuditta emergono anche dalla scelta mericiana di porre al centro, prima che l’Istituzione, l’individuo e la sua umanità, gli affetti, la volontà, la mente e il cuore, i gesti e le intenzioni, l’esteriorità e l’interiorità.
In sintonia con l’esperienza femminile del sacro, specialmente in quelle donne devote che vissero nel mondo, come le beghine, le bizzoche e le diverse terziarie, anche Angela chiede alle sue figlie di vivere il rapporto con Dio non tanto enfatizzando il luogo (il convento) quanto piuttosto la conversione interiore soprattutto con le pratiche penitenziali e la preghiera.
Angela distingue tra digiuno corporale e spirituale e chiarisce che la funzione dell’astinenza dal cibo è per il raggiungimento dell’astinenza spirituale, cioè l’indipendenza dai valori del mondo. Se il digiuno fisico era uno strumento, quello spirituale era una condizione esistenziale: «ogn’una abbrazzar voglia anche il digiuno corporale, sì come cosa necessaria, et come mezzo et via al ver digiuno spirituale, per il qual tutti gli vitii et errori dala mente se tronchano […] il digiuno et astinentia convien che sia il principio et mezzo di tutti gli beni et profetti nostri spirituali» (Ibid.).
Un’altra intuizione avvicina Angela alla Giuditta “credente controcorrente”: il considerare la preghiera mentale più importante di quella vocale e distinguere chiaramente tra le due forme. Il ruolo della preghiera vocale, dunque, come nel caso del digiuno, consisteva nel predisporre l’individuo alla vita spirituale.
- La compagnia propone alle consacrate non una pesante struttura di potere che sovrasti l’individuo nella sua umanità e individualità.
La centralità, il rispetto e la sacralità della persona (anziché delle strutture esteriori e istituzionali) emerge in maniera evidente anche quando Angela avverte le Colonnelle di astenersi dal giudicare le scelte di vita intraprese dalle loro sottoposte: «non sapeti cosa il [Dio] voglia far di loro […] Et poi chi po giudicare gli cori et gli pensieri secreti di dentro della creatura? […] che a voi non sta giudicar le ancille di Iddio; il qual ben sa che cosa il ne vol fare» (Ric, 8). L’esperienza che l’angelina fa della propria soggettività, consistente nei propri pensieri, sentimenti, volontà, parole, gesti, e ogni altro aspetto interiore ed esteriore, si realizza pienamente nell’unione con Dio. Nella preghiera mentale che Angela chiede di recitare, in cui si delinea l’unione tra l’angelina e Dio, viene descritta la persona in tutta la sua complessità: «assegura i miei affetti et sensi […] ti prego che tu te degne de ricever questo mio vilissimo et immondo cuore […] ricevi il mio libero arbitrio, ogni mia propria voluntade […] Riceve ogni mio pensar, parlar et operare, ogni mia cosa finalmente così interiore come esteriore» (Reg. V).
Don Mauro Stabellini PC