1a relazione: Di Dio nel mondo. Testimoni dell’originalità cristiana (Paola Bignardi)
- L’esperienza di Angela Merici
Angela Merici giunse alla decisione di fondare una Compagnia di donne consacrate nelle verginità, che restavano nella propria famiglia e vivevano i consigli evangelici, non praticavano la vita comune, vivevano del proprio lavoro, affrontavano i rischi che la loro condizione comportava, in un’età in cui la donna doveva essere protetta o dal marito o dalle mura del convento; e questo, dopo molte esitazioni, ripensamenti, dubbi. L’intuizione era chiara dentro di lei, ma l’esperienza era troppo nuova e controcorrente per non suscitare perplessità, tentennamenti, obiezioni, esigenza di continue verifiche.
Per almeno due ragioni:
– La concezione del mondo diffusa allora -e non solo allora!- era quella di una realtà che costituiva un ostacolo ad una vita cristiana di qualità. Il mondo era una realtà nonostante la quale ci si poteva salvare.
– A questo occorreva aggiungere una seconda difficoltà. La condizione della donna. Le donne che non si sposavano quasi sempre trovavano rifugio tra le mura di un convento. L’idea di vivere da cristiane laiche consacrate nel mondo era assolutamente fuori dalla portata della mentalità di allora. Alla fine l’intuizione che viene dallo Spirito prevalse sulle opinioni diffuse nella società e nella Chiesa del tempo.
Angela dà vita alla Compagnia nel 1535, dopo aver dettato la Regola qualche tempo prima al Cozzano. La Regola colloca le donne che vi aderiscono nel mondo, luogo teologico dell’incontro con Dio e della fedeltà a Lui nel Vangelo.
L’istituzione fondata da Angela Merici portava il segno della conoscenza e della familiarità della Merici con la gente comune e della vita della sua città: molto diversa dal tipo di vita delle donne del tempo, costrette a vivere estranee alla vita che si svolgeva allora fuori dalla casa o dal convento.
- Il senso attuale di una laicità cristiana
La scelta di Angela Merici ci induce a riflettere sul valore del mondo in una visione cristiana della vita.
In altri termini, è la questione della laicità che nella cultura e nella sensibilità, sia civile che ecclesiale di oggi, è molto impegnativa.
Il termine laicità e quello, più familiare, di laico hanno una vasta gamma di significati, riconducibili a due grandi ambiti: quello ecclesiale e quello sociale e culturale.
Nell’opinione diffusa oggi il termine laico è presente in un dibattito che mostra un grande interesse per la questione della laicità, intesa come emancipazione, come affermazione di autonomia rispetto a qualsiasi forma di dogmatismo. In questo senso, il termine nel dibattito attuale ha assunto un significato di contrapposizione nei confronti dei cattolici.
Nel contesto di relativismo che caratterizza la cultura di oggi, si intende laicità come neutralità, soprattutto di fronte a valori forti o a quelli che toccano la sfera religiosa. L’unica via sembra essere diventata quella di una laicità intesa come arretramento di fronte ad ogni valore e ad ogni scelta che appaia connotata sul piano culturale e soprattutto religioso: alla fine, laicità come terra di nessuno, come spazio grigio dell’indifferenza e del relativismo.
Ma l’idea di laicità che appartiene alla tradizione cristiana ha ben altro spessore e nulla ha da condividere con la prospettiva di neutralità citata prima.
La testimonianza di Angela Merici ci induce a fare l’elogio della laicità, intesa come umanità piena e matura; universale e aperta. È il nostro modo oggi di approfondire e arricchire di ragioni l’intuizione di una donna del ‘500, che non aveva gli strumenti di oggi per illustrarla, ma ne aveva compreso la sostanza.
Vorrei allora proseguire la nostra riflessione con quattro descrizioni – definizioni di laicità.
Laicità è dare valore alle cose…
Il rischio dei cristiani è stato per secoli quello di considerare il mondo creato e le cose che costituiscono il tessuto dell’esistenza quotidiana delle persone comuni, come un elemento indifferente alla vita cristiana, quando non anche pericoloso o di inciampo. Una tradizione spirituale che ha portato monaci e monache fuori dal mondo per vivere la loro esperienza di fede ha fatto sì che l’impegno nel mondo venisse svalutato. Recuperare uno spirito di laicità significa per i cristiani acquisire in maniera nuova il valore della loro esperienza nel mondo, come luogo in cui essi vivono la loro fedeltà ad un Dio che è entrato nella storia umana e ha preso su di sé la polvere e la bellezza della storia.
“Il cristiano è uno per cui le cose esistono”: è ciò che ha scritto Y. Congar, uno dei teologi che hanno elaborato un pensiero decisivo sui laici cristiani.
In questa prospettiva, le cose, la vita in tutte le sue dimensioni, la storia umana… sono per il cristiano luogo del suo incontro con Dio: il lavoro non è semplicemente il luogo della necessità, ma l’esperienza nobile con cui l’uomo collabora alla creazione di Dio che continua nel tempo; la politica è il contributo che ciascuno dà, sulla base della sua competenza e delle sue conoscenze, per costruire la città dell’uomo; la famiglia è l’esperienza attraverso cui l’amore di un uomo e una donna continuano a parlare dell’amore di Dio e a mostrarne la fecondità; l’educazione è l’aiuto per far sì che le nuove generazioni possano scoprire e sviluppare il dono di essere uomini e donne…
… è universalità…
La laicità è una categoria che esprime l’universalità dei valori e dei caratteri che fanno l’umanità di ciascuno; essa va oltre ogni particolarismo e ogni separatezza, nel riconoscimento, nella ricerca e nella responsabilità verso ciò che è comune.
Laicità è riferimento a ciò che è universale, di ogni donna e di ogni uomo, che è ben più di ciò che li differenzia, senza negarlo: è universale la libertà come bene, come destino e come responsabilità; è universale l’aspirazione alla giustizia; è universale la spinta a superare se stessi e ad attingere ad un oltre, costitutivo del nostro essere persone: oltre il tempo; oltre il presente; oltre il già conosciuto; oltre il frammento…
… è limite …
La creazione, in tutta la sua grandezza, è anche limite. Collocandoci nel tempo, essa ci colloca nel regime della storicità e dunque di ciò che è caduco, parziale, fragile. Il senso di una laicità matura è quello di accettare il limite che connota la vita umana, senza al tempo stesso sminuirne il valore. Dunque laicità è consapevolezza di non essere tutto.
Laicità è accettare che l’assoluto dei valori si incontri con la relatività dell’esperienza storica che non li può includere in modo perfetto e completo, e che dunque richiede la fatica della mediazione, il coraggio della libertà e del rischio, la capacità di riconoscere il valore delle scelte concrete e al tempo stesso di buttare lo sguardo sempre oltre.
… è ricerca e dialogo.
In questa prospettiva, è chiaro che la laicità ha bisogno di ricerca e di dialogo; ha bisogno del contributo di tutti, perché nessuno basta a se stesso.
Ci sono tante questioni che ci spiazzano, nella vita, nella fede e nella Chiesa. Laicità è rifiutare ogni soluzione facile e ogni scorciatoia, per percorrere i sentieri più ardui e contorti del pensiero, della ricerca, del dialogo. Laicità dunque è la capacità di porsi delle domande senza sfuggirne alcuna, è non censurare le ansie e le inquietudini connesse a questa ricerca, ma restando pronti a cogliere nella vita i segni della presenza di Dio che lo nascondono e, al tempo stesso, lo rivelano. La ricerca rende disponibili a cercare insieme con altri, far credito alla parte di verità che è nella posizione dell’altro, e cercare con lui.
E’ chiaro che la persona di dialogo non si consente mai di essere arrogante, nemmeno quando questo la espone alla sconfitta.
Contro una laicità che percorre la strada dell’indifferenza a tutti i valori, quasi come garanzia della possibilità di custodire la libertà di ciascuno, noi crediamo dunque in una laicità che riconosce come un dono destinato a tutti la realtà creata, di cui ciascuno di noi, come ogni donna e ogni uomo, siamo destinatari.
Laicità come umanità, valore universale su cui ci possiamo (e dobbiamo cercare di) riconoscere con tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
La nostra umanità, in tutte le sue forme esistenziali e culturali; individuali e sociali; di istituzioni o di iniziativa personale… è un bene da riconoscere, da apprezzare e di cui sentirsi responsabili.
Laicità come esperienza che comprende tutte le espressioni della nostra umanità: famiglia, politica, cultura, economia, professione, …
- Da cristiani nel mondo
Il mondo è realtà creata e redenta
Quali sono gli elementi che spiegano questo modo di intendere la laicità cristiana?
Le prime pagine della Bibbia, nel linguaggio poetico loro tipico, raccontano che il mondo è opera di Dio, e che questo mondo a Dio piace.
E Dio vide che era cosa buona…
La compiacenza di Dio sul mondo parla di bellezza, di bontà, di armonia.
Volendo dare voce alla bellezza del creato, frate Francesco si è espresso con un lirismo laicissimo: Laudato sii mi Signore per frate focu, per frate ventu; per le acque e per il sole; per le stelle e per le nuvole…
Sappiamo che c’è un pensiero che si insinua nel cuore dei progenitori, un pensiero seducente come sono i fantasmi che ingannano: perché sottostare ai limiti posti da Dio? E poi, perché non possiamo noi stessi diventare come Dio? E fare a meno di Lui?
Il peccato, questa invidia per Dio, rompe l’armonia di tutto. Ed ecco la vergogna di essere nudi, cioè la paura di essere se stessi davanti a Dio. E poi la comunione interrotta tra l’uomo e la donna, l’odio contro il fratello. La violenza, la guerra, la sopraffazione, l’ingiustizia, la volontà di prevalere sull’altro, la paura di Dio sentito come un concorrente; il fratello come un nemico… sono i frutti di questo disastro.
Ma Dio non si rassegna. Vuole restituire all’uomo la bellezza del primo giorno, e lo fa scegliendo la strada del cuore, che salva annullando le distanze, rinunciando al potere e alla forza, caricandosi del male dell’altro e portandolo come lui, al posto suo. Dio si fa creatura con le sue creature, nel corpo di una donna, confuso tra noi, per vivere in mezzo a noi.
Il mistero di Nazareth
Gesù ha vissuto trent’anni della sua breve esistenza nella normalità di una vita comune a tutti i ragazzi e poi a tutti i giovani della Palestina del suo tempo: confuso in mezzo a loro, eppure così diverso da loro. Figlio di Dio e figlio dell’uomo. Un bambino e un ragazzo come siamo stati noi; un giovane che ha lavorato, amato, pensato… come noi. Ha avuto una famiglia, degli amici, ha saputo vedere la bellezza dei gigli del campo e dell’erba del prato… il tempo di Nazaret contiene una dimensione importante della vita di Gesù, la più misteriosa e la più difficile da raccontare. Non possiamo pensare che Gesù abbia salvato il mondo solo nei tre anni in cui ha parlato, ha compiuto miracoli, si è manifestato nella straordinarietà della sua natura di Messia. Gesù è stato Messia Salvatore anche negli anni in cui la sua esistenza non aveva nulla che potesse essere raccontato: una vita avvolta dal silenzio, perché troppo comune, troppo ordinaria, troppo uguale a quella di ciascuno di noi. Ed era talmente comune la sua vita, da costituire pietra di inciampo. Dopo la moltiplicazione dei pani e il discorso con cui Gesù lo ha “spiegato” nella sinagoga di Cafarnao, i Giudei dicevano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?»(Gv 6,42).
Negli anni di Nazaret, la salvezza per noi è passata attraverso il Suo vivere da Figlio; attraverso il silenzio in cui Gesù ha fatto proprio l’amore del Padre per l’umanità e la sua decisione di salvarlo; attraverso la preghiera che alimentava la relazione con Dio e costituiva il “luogo” dell’incontro, del cuore a cuore, per rendere sempre più propria la verità che Egli un giorno rivelò a Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare per esso il suo Figlio Unigenito”.
Dunque Nazaret entra nel mistero della storia umana, perché l’ha caricata di condivisione divina e di amore silenzioso; ha messo in essa, come germe di vita nuova, la decisione di una dedizione disposta a farsi sacrificio della vita perché l’umanità conoscesse quell’amore che è più forte della morte.
L’icona di Nazaret, cioè del tempo in cui Gesù è stato così simile a noi da essere in tutto confuso con ciascuno di noi, costituisce il paradigma di una vita cristiana ordinaria.
Il senso di trent’anni di silenzio, di anonimato, di nascondimento forse non significa altro che la volontà di condividere l’esperienza umana e il suo valore.
Si comprende allora il senso dell’affermazione di Agostino che parla del peccato di Adamo come di una felix culpa, che ci ha guadagnato la possibilità di conoscere Dio attraverso l’umanità di Gesù.
Vivere da donne e uomini che portano impresso il soffio di Dio significa obbedire al comando di Dio Creatore che ha invitato a collaborare con Lui “sottomettendo la terra”, cioè penetrandone le leggi con il pensiero, mettendo a frutto dell’umanità le risorse che essa contiene per l’uomo cui è destinata; è condividere con il Signore Gesù la missione di restituire al mondo, alla vita, alle cose la loro bellezza e la loro originaria armonia.
Il magistero del Concilio
La riflessione conciliare ha dato risalto a questa prospettiva; essa, ancor prima di dare valore alla presenza dei laici cristiani per la missione della Chiesa nel mondo, ha parlato della solidarietà della Chiesa con le “gioie e le speranze, le tristezze e le angosce” dell’umanità tutta, invitando i laici cristiani a “riconoscere la natura profonda di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio” (LG 36), e a immergersi in essa, come un fermento, per farne brillare la bellezza e far sbocciare da essa il bene che contiene. Queste riflessioni sono anche il frutto di un laicato che aveva cercato di vivere con decisione sempre più matura la propria convinzione di dover contribuire a costruire il mondo come creatura di Dio, maturando il proprio convincimento nel contesto di un laicismo ostile, allora non meno di ora, al contributo dei cristiani alla vita della società.
Oggi, per quanto ci sia nei laici cristiani -soprattutto in quelli cresciuti in un certo clima, quelli che esprimono la generazione conciliare del laicato- una viva sensibilità per i valori della laicità cristiana, resiste però anche un pregiudizio, che riguarda la dimensione secolare della vita: credere che l’impegno profuso in questo ambito sia meno nobile della dimensione tradizionalmente riconosciuta come spirituale: preghiera, impegno in parrocchia, responsabilità pastorali… Resiste il pregiudizio che per vivere una vita cristiana piena occorra uscire dal mondo, abbandonare la polvere della storia… finché questo pregiudizio resisterà, noi faremo mancare alle nostre città e alla società di cui siamo membri il sale e il lievito del Vangelo.
Una Chiesa la cui azione pastorale vuole essere anima del mondo è impegnata a riconsiderare lo spirito della Costituzione conciliare Gaudium et Spes, di cui cerca di vivere la spiritualità, traducendola in atteggiamenti, in scelte, in dialoghi, in aperture.
Questa attenzione al mondo dovrà maturare in un vero amore al mondo. Se Gesù non avesse amato il mondo, non avrebbe dato per esso la sua vita; e l’ha data consumandosi fino in fondo, fino al dono della vita.
Questo vale per ciascuno di noi; ma vale ancor prima la Chiesa, per le comunità in cui viviamo.
Eppure non è facile incontrare credenti che sappiano cogliere nel mondo anche la bellezza che rinvia al Creatore; discepoli del Signore che sanno imitare il loro Maestro con un amore capace di salvare; disposti a non fermarsi di fronte al male; disponibili a lasciarsi vincere da esso, piuttosto che abbandonare il mondo all’oscurità della morte. L’atteggiamento del credente di fronte al mondo può anche essere considerato la verifica del modo cristiano di amare.
Il dialogo con il mondo ha conosciuto in questi anni molte significative tappe, un interesse nuovo, una nuova apertura alla vita delle persone, una nuova e più diffusa attenzione per i problemi della comunità umana, dei poveri soprattutto. Tuttavia occorre riconoscere che il cammino compiuto ha bisogno di molti passi avanti. E’ certamente cresciuto nelle nostre comunità un senso cordiale di partecipazione ai problemi della società e delle persone più povere; è meno cresciuto lo spirito del confronto, che il Concilio ci chiedeva di maturare; il senso, ad esempio, di sentirci come cristiani e come Chiesa, nel mondo, partecipi cioè fino in fondo delle vicende, delle tensioni, delle fatiche… del mondo entro cui viviamo e non invece interlocutori di esso, come chi sta di fronte e non come un fratello, un compagno di viaggio che condivide la fatica e la bellezza dello stesso viaggio. Proprio per questo il dialogo con il mondo ha prodotto più diffidenze che ricchezza, dal momento che le nostre comunità si pongono di fronte alla comunità umana poco disponibili ad ammettere che dalla sua esperienza, dalla ricerca di umanità e di vita delle persone di oggi può ricevere ricchezza e indizi positivi per la sua ricerca di Dio.
La condizione dei laici o comunque di quei cristiani che vivono nel mondo pone nella condizione privilegiata di sperimentare e condividere le gioie e i dolori, le tristezze e le angosce degli uomini e delle donne di oggi; che sono anche le nostre. C’è bisogno di imparare a vivere una fede intrecciata fortemente con la vita di ogni giorno e l’esperienza del mondo, anche perché ci rendiamo conto che la capacità di tradurre la fede in parole di intensa umanità può costituire un linguaggio leggibile a tanti nostri fratelli in cerca di un senso per la loro vita.
Una Chiesa anima del mondo è una Chiesa disposta a convertirsi all’umanità: quella del Signore, così poco considerata, apprezzata, contemplata… come via per incontrarlo nell’esistenza; come mistero del suo condividere la nostra stessa umanità; la nostra umanità, da educare, da formare, da far crescere, perché il nostro essere cristiani non è a lato rispetto a noi, alla nostra storia, alle nostre qualità umane, che costituiscono il linguaggio più ordinario e comune per parlare di Vangelo, mostrandolo; l’umanità delle persone che ci vivono accanto, radice comune su cui si fondano comune dignità e valori di fraternità; l’umanità della parola con cui annunciamo, perché non sia a prescindere dalla vita o-ancor peggio- contro la vita; perché non sia dottrina senza spessore di esistenza; perché sia voce che rivela la grandezza della nostra vocazione di donne e uomini, che indica qualche percorso per dirigersi verso la pienezza di essa; perché non sia legge che rinchiude, ma amore che libera; perché non sia grigia ripetizione di pensieri che non parlano al cuore perché non scaturiscono dalla vita; perché non sia giogo ma rivelazione che fa intravvedere il senso di ogni istante; l’umanità delle relazioni tra noi e con tutti, perché abbiano quel calore, quella cordialità, quell’accoglienza, quella misericordia e quell’assenza di giudizio che ha caratterizzato le relazioni del Signore Gesù con le persone che ha incontrato.
- Stare nel mondo con il cuore di Dio
Quello del cristiano non è un generico stare nel mondo, quasi il mondo fosse semplicemente un territorio in cui abitare. Quella dei cristiani è una presenza nella quale si riflette la forza trasformante dell’incontro con il Signore, che è incontro che cambia la vita.
La Scrittura è piena di episodi che narrano la forza travolgente dell’incontro con Dio. Zaccheo smette di essere ladro e distribuisce ciò che ha accumulato rubando; coloro che sono chiamati si pongono al seguito di Gesù; Paolo dopo l’esperienza del Risorto sulla via che lo porta a Damasco a perseguitare i discepoli del Signore, diventa apostolo. Dopo di loro, schiere di persone hanno cambiato il corso della loro esistenza, dopo aver intuito che essa ha dimensioni più profonde e diverse da quelle che si colgono restando alla superficie di essa. Spesso i cambiamenti che la fede ha immesso nella vita non sono così clamorosi come quelli citati prima; sono semplicemente un altro modo di guardare l’esistenza, scorgendo in essa ciò che risulta invisibile all’occhio superficiale o avido o egoista.
Ma: come tornare alle occupazioni quotidiane, dopo l’incontro con il Signore? Come fare continuità tra il Vangelo creduto e l’esistenza ordinaria di ogni giorno? Come tenere insieme l’assoluta straordinarietà del rapporto con il Risorto e le responsabilità di ogni giorno, gli impegni quotidiani, le relazioni di prima? Che valore assume la vita di ogni giorno dopo aver scoperto di essa altre e inedite dimensioni? Che cosa cambia della vita, se si crede che il Crocifisso è il Risorto?
L’antico scritto A Diogneto risponde a questo interrogativo con una famosa descrizione della vita del cristiano nel mondo. Nella suggestione che essa continua ad esercitare, vale la pena riascoltarla: “I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio né per lingua o abiti. Essi non abitano in città proprie né parlano un linguaggio inusitato; la vita che conducono non ha nulla di strano… Abitano nelle città greche o barbare, come a ciascuno è toccato, e uniformandosi alle usanze locali per quanto concerne l’abbigliamento, il vitto e il resto della vita quotidiana, mostrano il carattere mirabile e straordinario, a detta di tutti, del loro sistema di vita… Abitano nella propria patria, ma come stranieri… Ogni terra straniera è loro patria e ogni patria è terra straniera… Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi…”
Chi ha familiarità con il Vangelo, si rende conto dell’insostenibilità di quel cristianesimo triste e un po’ arcigno che talvolta si incontra in chi ha perso i contatti con le fonti della vita cristiana. Il cristianesimo è l’esperienza di donne e di uomini che amano la vita, che vivono con gioia la loro esperienza familiare e sociale; le relazioni con gli amici e con i vicini di casa; la politica e la professione…; che sanno apprezzare l’umanità in tutte le sue dimensioni: affetti, responsabilità, fatica, amore; che sanno dare un senso alle esperienze difficili che segnano l’esistenza di tutti: la malattia, il dolore, il limite, la solitudine, la morte; che non subiscono la loro umanità e le forme con cui si esprime nella cultura di oggi. Sono persone che hanno scoperto come il Vangelo dia pienezza all’umanità; “sono uomini come tutti gli altri, pienamente partecipi della vita nella città e nella società, dei successi e dei fallimenti sperimentati dagli uomini; ma sono anche ascoltatori della Parola, chiamati a trasmettere la differenza evangelica nella storia, a dare un’anima al mondo, perché l’umanità tutta possa incamminarsi verso quel Regno per il quale è stata create”
Per questo, i cristiani non cercano di appartarsi rispetto allo scorrere della vita quotidiana e alle responsabilità che essi condividono con ogni persona; soprattutto di essa si sentono partecipi con interesse, con cordialità, desiderosi di essere fino in fondo cittadini, consapevoli che per esserlo così devono farsi un po’ anche “stranieri”: stranieri come può esserlo chi guarda il mondo e lo ama con il cuore di Dio: stranieri ad ogni interpretazione dell’esistenza di basso profilo; alla mondanità, ad ogni esaltazione dell’individuo e dei suoi interessi a prescindere dagli altri; stranieri alla smania di successo e di potere; stranieri non per rimarcare le differenze o per segnare una lontananza, ma per dare della vita un’interpretazione originale, non ovvia, non consueta.
Spesso è difficile stare su questo crinale, tra l’esigenza di abitare le ordinarie condizioni della vita di tutti e la necessità di non confondersi. La tendenza diffusa nella società di oggi è quella che porta verso l’omologazione dei comportamenti, delle abitudini, delle valutazioni su fatti e situazioni. La pressione dei mass media, la moda ha considerazione solo per gli “arrivati”, la superficialità diffusa –insieme a tanti altri fattori- esercitano una pressione che influenza soprattutto i più giovani e induce ad assumere i comportamenti di tutti, ad avere gli oggetti che hanno tutti, a vestire tutti allo stesso modo…. Si direbbe che c’è bisogno di adeguarsi alle regole del costume diffuso per sentirsi appartenenti ad una società che dà identità e fa sentire inclusi attraverso questi segnali. Queste linee di tendenza, che non riguardano solo la fede, ma i comportamenti diffusi, rendono difficile vivere il carattere alternativo della vita cristiana. Il “tra voi non sia così” del Vangelo appare una legge che colloca in una singolarità che spesso non si ha la forza di elaborare, di sostenere, di motivare. Eppure, solo se come cristiani e come comunità sapremo mostrare che c’è anche un altro modo di vivere le esperienze comuni della vita di ogni giorno, avremo qualcosa da dire alle persone con cui condividiamo il giorno per giorno. Questo è tempo per scoprire la straordinaria bellezza della vita vissuta da cristiani, secondo il Vangelo, anche nei suoi caratteri alternativi al modo corrente di pensare e di comportarsi. Alternativi: è diverso da stravaganti o strani: l’alternativa non nasce dal gusto di essere diversi, ma dalla necessità di far emergere l’originalità di una visione della vita che può rigenerare il modo ordinario di impostare l’esistenza, dentro le differenti culture. Alternativi non per il gusto di rimarcare le identità ed evidenziare le differenze, ma per mostrare un altro senso della vita.
- Lessico della vita quotidiana dei laici cristiani
Vorrei allora provare a sintetizzare le caratteristiche concrete del laico attraverso alcune parole-chiave che descrivono e alludono a che cosa significa vivere da laici cristiani nel mondo.
Ciascuna di queste parole ha una doppia faccia: una dimensione di fatica e una di grandezza. Dipende dalle scelte che ognuno fa poter cogliere solo la fatica o anche le possibilità, la grandezza, le prospettive che esse aprono alla nostra vita.
a) Solitudine
È una parola che, normalmente, fa paura; tuttavia, se si pensa alla quotidiana esperienza dei laici, ci si rende conto che essa è la condizione ordinaria nella quale essi vivono. Ognuno realizza la sua testimonianza in un contesto in cui spesso le persone non hanno una visione cristiana della vita; rispetto a tali persone ci si può sentire in alcuni momenti vicini, in altri lontani ed anche molto soli. Questa solitudine, però, può permettere di guardare più profondamente dentro di sè e di vedere che c’è un tesoro nella vita di ciascuno che nessuno può violare, ma è appunto dentro e costituisce il segreto dell’esistenza. Saper vivere la propria esperienza di laici dentro questa dimensione di solitudine vuol dire saper attingere a questo tesoro che è presente nella profondità nella nostra vita e che è il mistero della comunione con il Signore.
Allora la solitudine non è un’esperienza negativa, ma preziosa, anche se talvolta assume caratteri drammatici. Ognuno, nella solitudine del suo essere di fronte a Dio, del suo custodire nel profondo della coscienza il mistero di questa comunione, sperimenta che ci sono decisioni che riguardano lui e soltanto lui. Qui si sperimenta il dramma della libertà, ma anche la grandezza della vita. Ci sono momenti in cui si vorrebbe avere qualcuno che dicesse che cosa si deve fare, invece di trovarci a certi bivi della vita che portano a diverse strade, spesso tutte ugualmente inquietanti e difficili.
Fa parte dell’esperienza dei laici proprio lo sperimentare questa dimensione di solitudine come grandezza di una coscienza nella quale Dio abita; come fiducia che il Signore ha nella nostra libertà.
b) Rischio
La seconda parola è “rischio“; non fa parte del linguaggio imparato al catechismo – così come solitudine -, ma piuttosto dell’esperienza dei laici. Si diceva che la grandezza della visione della vita nella quale si crede, l’assolutezza dei valori a cui fa riferimento l’esistenza non possono stare completamente come si vorrebbe nella concretezza dell’esperienza. Giorno per giorno si ha la responsabilità di compiere scelte concrete che non sempre sono fra il bene e il male, ma più spesso tra un male e un male minore, tra ipotesi confuse, tra beni parziali… Non sempre si è sicuri di fare le scelte giuste; si sa che si deve rischiare, affidandosi a Dio, senza però avere altre certezze, anche perché le scelte sono sempre parziali; talvolta si compiono perché occorre farlo, non perché tutto sia chiaro. Eppure è necessario scegliere, perché ci sono momenti in cui bisogna prendere posizione.
Esiste quindi una dimensione di rischio, che associa l’esperienza della solitudine a quella del necessario scommettere, del rischiare sulla concretezza e sulla parzialità. Occorre scegliere per non correre il rischio di proclamare i valori solo a parole, di limitarsi ad affermare un dover essere a cui non corrisponde una concretezza di vita cui manchi il coraggio di compiere scelte parziali. Stare dentro la realtà storica vuol dire avere il senso della parzialità che alcune scelte concrete impongono, con tutta la drammaticità che talvolta ciò comporta.
c) Originalità
La terza parola è “originalità“. Ci sono momenti in cui o si sa conservare nello stile di vita l’originalità del proprio essere cristiani, o quest’ultimo diventa una proclamazione di principio teorica. C’è un’originalità pasquale della vita che è il credere al valore paradossale della croce e quindi di tutte le scelte deboli, non vincenti. Nella vita di famiglia o di lavoro, il banco di prova dell’essere cristiani è nella capacità di essere se stessi, nell’originalità di alcune scelte controcorrente, che riguardano il modo in cui si imposta la vita di famiglia, o in cui si sceglie un lavoro, seguendo non solo il criterio della carriera o dello stipendio. Ad esempio, non basta dire che i soldi non sono la cosa più importante della vita; bisogna poi verificare quanto e se le affermazioni di principio sono vere nelle scelte che si compiono per quanto concerne la famiglia, l’utilizzo delle risorse, del tempo, delle energie, della casa, …
d) Condivisione
La condivisione è il connotato comune e più tipico della vita dei laici cristiani. Essi condividono l’esperienza di tutti, delle donne e degli uomini con cui vivono, con quel carattere di originalità cui ho fatto cenno. E’ un aspetto che va particolarmente sottolineato, in quanto si tratta della capacità di dividere con gli altri la vita, ciò che si è e ciò che si ha.
Ma c’è un’altra dimensione della condivisione, che è la disponibilità a stare accanto e a mettersi in sintonia con le persone più povere, che dalla vita hanno avuto scarse risorse; allora la loro povertà diventa un po’ anche la nostra, si riflette sulla nostra esistenza, e continua nel tempo la scelta del Signore Gesù che da Dio si è fatto uomo. Non basta pensarsi in una prospettiva di generosità, di dedizione; occorre pure essere disposti a lasciare cambiare qualcosa della propria vita da certi incontri. Un diverso uso dei soldi, della casa, del tempo non dipendono da una scelta teorica, ma da questo consentire che gli altri siano la parola che il Signore mette accanto a ciascuno per dare a tutto un’impronta che sia sua più che degli uomini.
2° relazione: Vivere il Vangelo nel mondo. (Paola Bignardi)
La spiritualità delle cose ordinarie
- Alcuni tratti della spiritualità di Angela Merici
Come vivere il Vangelo nel mondo?
- Certamente Angela Merici si sarà trovata di fronte a questo interrogativo, difficile, data la straordinarietà della scelta che aveva compiuto e che proponeva. Occorreva andare alla ricerca di uno stile nuovo, che fosse diverso da quello canonico previsto per chi stava al riparo delle mura del convento, con una vita scandita da un’autorità esterna a sé.
Angela Merici dà alcune semplici indicazioni nella sua Regola, che colpisce per la sua essenzialità, quasi a sottolineare come la vita cristiana nel mondo non possa essere né scandita né rinchiusa in un’organizzazione che abbia il proprio centro fuori dalla coscienza personale. Essa è affidata alla fedeltà allo Spirito, nella libertà, nel legame con pochi, qualificanti indirizzi: la preghiera, la vita sacramentale, il digiuno, la povertà intesa come distacco interiore e non tanto come assenza di beni materiali; e poi l’obbedienza che libera dal “tenebroso inferno” della propria volontà e realizza la conformità alla volontà di Dio; l’obbedienza che va data soprattutto allo Spirito. (*).
E a proposito di preghiera, colpisce ciò che si legge nella Regola, a proposito del non prolungare la preghiera in Chiesa, al termine della Messa. (**).
Una vita cristiana essenziale non significa una vita cristiana minimale o di scarso impegno. Anzi! Si tratta piuttosto di una vita che si affida allo Spirito, che illumina, suggerisce, conduce, attraverso la sua azione nella coscienza, che è la fondamentale legge della fedeltà creativa al Vangelo dentro le situazioni concrete.
Una spiritualità che non prevede nulla di straordinario, quanto piuttosto la serietà nel vivere una vita cristiana con radici profonde e grande cuore.
- Vivere “lietamente alla giornata” (Cozzano)
Il banco di prova della vita cristiana, e ancor prima della vita, è lo scorrere quotidiano delle giornate.
La nostra vita di ogni giorno è fatta di piccole cose comuni: il lavoro, la casa, la famiglia, i molti gesti semplici che si ripetono; di molte relazioni, a volte serene e pacificanti, altre volte conflittuali e tese, di piccoli contrattempi e di grandi preoccupazioni; di persone, problemi, situazioni… La vita di ognuno di noi è il succedersi semplice di tutte queste vicende. Una vita senza senso o una vita di grande intensità: l’una o l’altra situazione non dipendono da ciò che è esterno a noi, ma dall’atteggiamento interiore con cui assumiamo lo scorrere concreto dell’esistenza.
Vi sono diversi modi di leggere la vita, diversi livelli di profondità: la vita può essere considerata e percepita soggettivamente come la somma delle attività di ogni giorno. In questo caso ci sentiamo vivi se abbiamo tante cose da fare e ci identifichiamo con esse.
Vi è la consapevolezza della nostra condizione esistenziale (ad esempio il nostro essere giovani, adulti, anziani…; sani, malati…; ricchi, poveri…). La nostra vita assume caratteri che sono legati in generale a questa condizione e al modo con cui essi sono vissuti nella cultura in cui viviamo.
La nostra vita si identifica con la nostre scelte, con gli orientamenti che un giorno le hanno dato una forma, che nel tempo si è approfondita, meglio definita, resa più matura… spesso è difficile mantenere ad un livello di consapevole e matura profondità le scelte di un giorno. La routine rischia di appiattire tutto, di togliere slancio e originalità, di far perdere il sapore di ciò che un giorno ci ha convinto e ci è apparso bello e significativo. Il quotidiano è il banco di prova della fedeltà a ciò che un giorno abbiamo scelto.
E vi è un ulteriore livello: quello della coscienza della nostra esperienza di Dio e di noi stessi; esperienza che facciamo in profondità. La nostra quotidiana esperienza di Dio spesso è l’elemento che dà qualità e profondità alla nostra esistenza di ogni giorno. Tale profondità, che è stabilità e senso di realizzazione di sé, si manifesta nella vita quotidiana nella maturità di scelte, atteggiamenti e comportamenti che non hanno la loro radice in se stessi, ma nella profondità della coscienza. Si esprime nella serenità e nella pacatezza con cui affrontiamo la vita. “Traspira negli scritti della Merici un senso di allegrezza spirituale e di letizia (“viveva lietamente alla giornata” secondo l’autorevole testimonianza del Cozzano, cancelliere della Compagnia). Sono pagine di luce e di freschezza mattinale. Angela incarna un cristianesimo gentile e leggero” (M. Marcocchi, in Vita Cattolica, 21 gen 2010, pp.34-35)
Tutto questo vi può essere nello scorrere quotidiano delle nostre giornate; senza nulla di eccezionale, di straordinario, di eroico.
Nella società di oggi non c’è una grande considerazione dell’ordinario: la vita quotidiana, il lavoro, le relazioni consuete… rischiano di logorarsi nella routine; l’esistenza di ogni giorno appare più come un luogo da cui fuggire che una dimensione da assumere, da vivere con intensità, da valorizzare. Si preferiscono molto di più le esperienze dai toni forti, con un intenso impatto emotivo; se occorre, cercate anche nell’esoterico, nella trasgressione, in ciò che può dare un brivido, scuotere dal sopore. Siamo consumatori di esperienze e in questa superficialità fatichiamo a ritrovare noi stessi.
Come vivere da cristiani in questo contesto? Che cosa e come possono non far cadere nella mediocrità la nostra vita cristiana?
- Tratti di una vita cristiana ordinaria, nel mondo
Caratterizza la spiritualità di Angela Merici il senso dell’unione nuziale con Cristo. Poiché “sono state scelte ad essere vere e intatte spose del Figliolo di Dio” “vere e caste spose dell’Altissimo”, la verginità come “sacrificio volontario a Dio del proprio cuore” diventa l’espressione di un amore esclusivo e indiviso e pertanto è definita “sorella de tutti gli angeli, vittoria degli apetiti, regina delle virtù et posseditrice de tutti i beni”
Una spiritualità, la sua, al cui centro vi è un’esperienza forte di amore. In questo vi è un tratto della sua attualità. Mi pare che oggi abbiamo bisogno di riscoprire che il cuore della nostra fede sta nel rapporto con il Signore Gesù: un rapporto di libertà e liberante; rapporto che ci apre al futuro, perché ci fa consapevoli di essere inseriti in un progetto di amore più grande della capacità stessa che abbiamo di conoscerlo e di comprenderlo.
Al cuore della fede credo non possa esservi altro che il mistero della persona del Signore Gesù. Come ogni vera relazione di amore, anche quella con il Signore ci libera da noi stessi.
Credo che oggi sia necessario sottolineare che la fede è un amore; è l’amore ciò che ci tiene in vita, giorno per giorno; ciò che dà senso e forza alla nostra esistenza. La fede, se vuole avere ragioni forti per accreditarsi dentro la coscienza delle persone, oggi non può che avere la forza dell’amore; e dell’amore, avere il carattere totalitario e radicale; e non in primo luogo amore da donare, la scelta di vivere per gli altri; ma l’amore come dono che riceviamo; e che riceviamo non perché ce lo meritiamo, ma perché siamo figli di un Dio di misericordia.
Vivere allora è ricevere ad ogni istante da Dio la nostra vita come un amore, come una parola d’amore, e credere alla fedeltà di Dio, che continua a camminare al nostro fianco anche quando il cammino diventa oscuro, minaccioso, carico di dolore …
Cercare la Parola che ci parla di questo amore
Il Signore ci ha lasciato una Parola che svela e ci racconta questo amore. La Parola è la persona del Signore che ci parla, si fa compagno di viaggio, ci indica la strada. Chi è assiduo all’ascolto della Parola, sente crescere la familiarità con la persona del Signore e si rende conto che a poco a poco questa lo trasforma. Ascoltare la Parola è stare in contatto con il mistero, senza pretendere di capirlo o di possederlo; è cercare la chiave del cuore di Dio per penetrare il mistero della vita… Ascoltare è atteggiamento del cuore; è esercizio disciplinato, è affinamento continuo dell’anima per capire più in profondità…. L’ascolto della Parola nel libro va di pari passo con quello della vita, perché il Risorto vive anche oggi dentro la storia umana: non solo nei fatti straordinari, ma in quelli umili, ordinari, semplici dell’esistenza quotidiana: quella che più di altre rischia di apparirci muta.
Eppure la vita racchiude gli infiniti racconti della Parola, che narrano la bellezza grande e drammatica dell’umanità, quasi “sacramento” in cui Dio si è racchiuso, facendosi presente e nascondendosi al tempo stesso.
La vita racchiude il mistero: è mistero una vita che si accende nel grembo di una donna; è mistero la vita spensierata di un bambino che cresce; è mistero il perdono che rigenera le relazioni tra due persone; è mistero lo svelarsi di un pensiero importante, inseguito per tanto tempo con la fatica dello studio e della ricerca…
Dio ci ha dato una luce per orientare il nostro cammino e per illuminare le nostre domande sulla vita: la sua Parola spiega, dà senso, svela aspetti impensati della realtà, offre un altro punto di vista sull’esistenza e sulla storia umana.
Dio ha parlato all’uomo; cioè si è preso cura di lui, delle sue domande, del suo bisogno di avere un senso per l’esistenza. Senza una direzione, un orientamento, come potremmo camminare verso di Lui? Come potremmo fare dell’incontro con Lui il senso di tutto il nostro vivere? Come potremmo realizzare la verità di noi stessi, creati da Lui, fatti per Lui e inquieti finché lontani da Lui (cfr S. Agostino)?
Dice il Salmo 118: “Lampada per i miei passi è la tua Parola…”. Dio non lascia nell’oscurità il nostro cammino, non ci abbandona alle nostre domande, al disorientamento che potrebbe prenderci. La parola che egli ci offre è come una lampada, che dà una luce discreta, non certo sfolgorante come quella del sole, che riempie l’orizzonte. La lampada rischiara solo per qualche passo, il resto rimane nell’oscurità. E tuttavia come potremmo vivere senza questa lampada, che ci permette di individuare i contorni delle cose, forse di non inciampare in esse; di intuire la bellezza di ciò che ci circonda, la grandezza nascosta?
Luce discreta, quella della lampada, che non ci toglie la libertà di decidere se per noi la vita è solo il piccolo orizzonte consentito al nostro sguardo o se è anche al di là, se è anche oltre, nello spazio oscuro e luminoso del mistero.
Dio affida la rivelazione della grandezza infinita del suo mistero alla forza debole della parola. Ma noi sappiamo che se ci affidiamo a questo ascolto, la vita ci apre orizzonti nuovi, e dietro l’apparente banalità dello scorrere delle nostre giornate si svela un’impensata intensità
Ricevere e celebrare l’amore
Il Signore ci fa dono dell’amore cui aspiriamo e di cui avvertiamo il bisogno: non solo dell’amore che desideriamo ricevere,ma anche di quello che vorremmo essere capaci di dare: è l’Eucaristia, soprattutto quella che celebriamo ogni domenica come comunità. Il dono dell’Eucaristia ci trasforma e ci rende capaci di amare. Siamo abituati a considerare l’aspetto più sensibile dell’Eucaristia: il trasformarsi del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Signore; ma anche la nostra vita viene trasformata, dalla partecipazione all’Eucaristia: ciò che la rende nuova è anche la consapevolezza dell’amore gratuito che la raggiunge. L’Eucaristia è il segno e la forza di questo amore. Se ci affidiamo ad un amore che crede nel valore della nostra vita e si dona ad essa, noi siamo trasformati; conosciamo per esperienza la forza che ci viene, per affrontare le situazioni più difficili, dall’aver vicino una persona che ci vuole bene, che ha fiducia in noi, che con gratuità vuole accompagnarsi alla nostra vita: sappiamo che quelli sono i casi in cui scopriamo in noi una energia insospettata; è questa una forza straordinaria che occorre anche per affrontare l’esperienza più difficile e più dura: quella di guardare in faccia il male che è in noi, di ammettere la nostre inadeguatezze, di riconoscere il nostro peccato.
Ogni Eucaristia è l’esperienza dell’incontro vivo con il mistero di una Persona che desidera accompagnare il nostro cammino verso la realizzazione piena di noi stessi, nella libertà, nella gioia, nell’amore. Con la forza del pane dell’Eucaristia, possiamo ammettere le nostre lontananze, possiamo trovare la forza di ogni ritorno.
Non possiamo lasciare la mensa eucaristica senza sentire dentro di noi la responsabilità di realizzare nella vita una continuità con il dono ricevuto e celebrato. Il primo frutto dell’Eucaristia credo sia un modo nuovo di guardare la vita: riconoscere lo stesso Signore, incontrato nella mensa eucaristica, nella vita – negli altri, nelle situazioni, nei poveri, nelle cose – si nasconde ed è presente. In ogni situazione possiamo riconoscere la presenza misteriosa del Signore Gesù; in ogni situazione abbiamo la responsabilità di vivere come Lui, perché quello l’unico modo per essere veramente grati per il dono che abbiamo ricevuto. E il vivere come Lui risponde ad un unico criterio: quello di amare.
Vivere con amore
Vi per il cristiano una legge fondamentale: fare dono di se stessi come il Signore Gesù; voler bene nel modo disarmato di chi non ha niente di proprio da salvare, nemmeno se stesso: “chi perderà la propria vita, la salverà” –aveva detto Gesù ai suoi. Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, non porta frutto. E perdere la propria vita non significa necessariamente morire, ma piuttosto vivere per gli altri, fare dono di sè senza risparmio e senza compromessi; se necessario, fino alla fine. È la legge della Pasqua distesa nel tempo, portata dentro le dimensioni dell’esistenza quotidiana.
Il laico cristiano perde la sua vita ogni giorno nel lavoro, nella famiglia, nella responsabilità sociale e politica, nell’economia, nelle relazioni più semplici. Dal punto di vista esteriore la vita di un laico può essere narrata in molte forme diverse, sapendo però che si parla sempre di un’unica realtà: il dono di sé senza calcolo, senza ritorno, senza riserve.
“Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4, 10), l’amore adesso non è più solo un comandamento, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro”. Con queste parole la Deus Caritas tratteggia la vita dei cristiani: una vita immersa nell’amore: quello ricevuto e quello donato, come due espressioni della stessa realtà. L’amore con cui rispondiamo all’Amore nel Vangelo è espresso nella forma del comandamento, ma l’anima di esso attinge alla gratuità del dono ricevuto.
Amare Dio e amare l’uomo sono due volti di uno stesso amore; due forme inscindibili di un amore che osa volgersi a Dio con confidenza e tenerezza filiali; un amore che si volge al fratello attingendo all’Amore di Dio e come esigenza che, con la concretezza, dà credibilità all’amore verso Dio. La prima lettera a Giovanni è perentoria: “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede!” (1Gv 4,20).
L’amore diviene dunque l’aria che il cristiano respira e che si traduce nei gesti semplici della vita di ogni giorno: gesti comuni, che sembrano fatti di niente e che creano attorno a noi e ancor prima dentro di noi un clima di serenità, di amore e di fiducia nella vita: è una parola taciuta perché avrebbe potuto ferire o una parola difficile detta per il bene degli altri; una disponibilità all’aiuto, quando magari anche noi siamo già stanchi; rinunciare a qualcosa cui tenevano, per poter essere di aiuto… Basta pensare ad una giornata qualsiasi, per rendersi conto di come siano frequenti queste occasioni, nel rapporto con i familiari, con i colleghi di lavoro, con le persone che incontriamo o con gli amici. E queste sono le occasioni più semplici. Talvolta al termine di una giornata in cui ci sembra di non aver fatto niente capita di sentirsi stanchi più per lo sforzo di non pensare a noi stessi che per la consistenza di ciò che abbiamo fatto. Se ci capita di sentirci consumati dall’impegno di voler bene in concreto, allora questo è il segno che la nostra giornata si è svolta nell’amore. E se abbiamo pensato, magari negli anni della giovinezza, che l’amore, la carità, il servizio siano scelte importanti, che acquistano consistenza in gesti altrettanto importanti, a poco a poco ci rendiamo conto che niente più dell’amore-carità sembra fatto di niente, e che quello che decide del loro valore è il cuore, l’anima con cui tutto è fatto. Allora le nostre giornate “fatte di niente”, vissute nella benevolenza, nella prossimità, nell’attenzione cordiale e solidale a tutti, acquistano la loro vera grandezza, riempiono la nostra coscienza di pace, ci donano il senso della nostra realizzazione nella profondità di noi stessi.
Il Vangelo poi ci indica una responsabilità fondamentale: quello dell’amore preferenziale per il povero. Nessun discepolo del Signore, nessun laico può dimenticare questo. Il povero è lo straniero che bussa alla nostra porta; è il collega d’ufficio che vive un dramma familiare; è il vicino di casa che soffre la solitudine; sono i nonni che cercano attenzione e compagnia…. Ciascuno sa quali e quanti sono i poveri che incontra in una giornata e quali sono gli atteggiamenti e le scelte che in concreto parlano sommessamente dell’amore di Dio. Nella lettera ai cristiani di Corinto Paolo quasi esplode in un inno alla carità, un canto alla bellezza di un’esistenza nella quale l’amore si dispiega, una lode all’amore fatto di gesti concreti e quotidiani: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,4-7).
Chi ha dato tutto sperimenta già da oggi di ricevere il centuplo in contraccambio: la libertà da se stessi, la compassione verso i poveri, e la possibilità di vivere consapevoli che il Signore è il tesoro della propria esistenza. Il segreto del Vangelo in fondo è questo: possiede la sua vita solo chi la dona, perché si possiede veramente solo ciò che si dona.
In questo modo, il cristiano contribuisce ad una “vita risorta”, la risurrezione entra già da ora nel mondo e nella storia umana, attraverso scelte, pensieri e stili di vita che attingono alla Risurrezione del Signore e ne mostrano la forza trasformante già da ora. Certo occorre attendere il compimento di essa nell’ultimo giorno; ma già da oggi è possibile vedere i segni che la anticipano e ne sono la promessa.
Le esperienze umane più comuni acquistano un significato nuovo, quello che esse avevano nel progetto originario di Dio. Così, il lavoro non è semplicemente il luogo della necessità, ma l’esperienza nobile con cui l’uomo collabora alla creazione di Dio che continua nel tempo e ritrova il suo valore di azione solidale per la vita di tutti; l’amore umano recupera la sua bellezza di dono all’altro; la famiglia è l’esperienza attraverso cui l’amore di un uomo e una donna continuano a parlare dell’amore di Dio e a mostrarne la fecondità; l’educazione è l’aiuto per far sì che le nuove generazioni possano scoprire e sviluppare il dono di essere uomini e donne; la politica è il contributo che ciascuno dà, sulla base della sua competenza e delle sue conoscenze, per costruire la città dell’uomo e ritrova il suo valore di azione che costruisce una città in cui è possibile la dignità di ogni persona.
Dice lo scritto a Diogneto che i cristiani “mostrano il carattere mirabile e straordinario, a detta di tutti, del loro sistema di vita”. Possiamo immaginare che la meraviglia, per chi guarda vivere un cristiano, provenga dal vedere quello stile di mitezza, di servizio, di dono di sé, di passione per la giustizia, di solidarietà che declina le beatitudini nell’esistenza quotidiana e dice che sovrano della patria cui i cristiani appartengono è un Signore crocifisso e risorto. Questo stile di vita può dire con i fatti che c’è una speranza; che la vita vale la pena di essere vissuta; che vale la pena di fare sul serio; che si può ricominciare ogni giorno. Chi ci guarda vivere, capisce che dentro di noi c’è un segreto che ci illumina e ci sostiene. Forse a poco a poco, attraverso la nostra testimonianza e la nostra parola, potranno capire che Gesù Cristo è morto e risorto perché noi possiamo vivere felici e dare un senso alla nostra esistenza; e potranno capire che le beatitudini sono il segreto della nostra felicità se ci vedranno vivere da poveri, da persone che amano la pace e sanno perdonare; se sapranno vedere la nostra misericordia e il nostro amore per la giustizia, la nostra libertà e la trasparenza della nostra stessa vita.
Prende forma così quella sapienza che si può vedere declinata in mille forme nell’esistenza di coloro che vivono nella fedeltà al Signore e al suo Vangelo: è fatta di gesti, scelte, sfumature, pensieri, atteggiamenti. Si manifesta nella mitezza con cui si affronta la vita; con la compassione che si commuove davanti al dolore; con la pietà verso chi è colpito dal male; con la solidarietà che si mobilita attraverso gesti semplici e comuni… Vi è un tratto che accomuna le diverse espressioni di questa sapienza: è il riuscire a interpretare con naturalezza le fragilità della vita, vivendole come il vaso di coccio che racchiude un tesoro. Questa sapienza riesce a dare ancora valore alle dimensioni deboli dell’esistenza: alla malattia, alla povertà, al fallimento, alla morte stessa… e mentre il mondo di oggi maschera questi aspetti della vita caricandoli quasi del significato di una maledizione, questa sapienza li accoglie come dimensioni della vita stessa; non con rassegnazione, non con lo spirito di chi è debole o vinto, ma con l’atteggiamento di chi riesce a vedere e andare al di là, nell’obbedienza ad un mistero che è oltre la comune possibilità di capire.
La fede genera così un’originale visione della vita e il cristiano spande attorno a sè il profumo del Vangelo, che è sovrabbondanza di amore, che, come nel gesto della donna di Betania, viene da un vaso di alabastro spezzato per amore.
La nostra umanità è il modo con cui giorno per giorno parliamo di Vangelo. Tutti gli altri linguaggi hanno bisogno di traduzioni, questo linguaggio invece è immediato: la capacità di accogliere, di dare valore alle persone, di andare incontro agli altri, di spenderci per un ideale di solidarietà e di dedizione. Tutto questo parla di un’intensità umana dietro la quale c’è un progetto “da Dio”. I percorsi dei santi laici che Verona ci ha proposto sono caratterizzati dalla fedeltà alla propria umanità abitata da Dio. Per vivere questo, ognuno di loro si è affidato al cammino spirituale della Chiesa e qui ha trovato il suo personale percorso, che ha fatto emergere nella coscienza di ciascuno il mistero che ciascuno portava e che si è espresso come chiamata, come provocazione, come dono in forme diverse e tutte legate alla vita concreta. A nessuno è stato chiesto di uscire dalla vita per vivere la propria vocazione cristiana e questo ci illumina sulla compatibilità della vocazione alla santità con ciascuna condizione di vita, con ogni tempo e con ogni situazione concreta. Santi che si differenziano non per modi di vivere e abiti, ma perché hanno qualcosa dentro che li fa cittadini di un’altra città, qualcosa che viene visto e valutato come qualcosa che può suscitare la meraviglia di tutti.
Portare nella comunità cristiana i riflessi della vita di ogni giorno
Si tratta di aiutare la comunità cristiana ad essere missionaria, attraverso una profonda comprensione dell’esistenza e la capacità di reinterpretare il messaggio in relazione alla cultura delle persone di oggi.
Quale modo di sentire, di pensare e di vivere la Chiesa? C’è un’assunzione un po’ esterna della vita ecclesiale: la sua liturgia, le sue iniziative, i suoi progetti operativi…. Il coinvolgimento di tanti nelle “cose di Chiesa”, mentre rappresenta una preziosa testimonianza, spesso non elabora le ragioni spirituali dell’appartenenza ad essa e non pone in esse le proprie radici.
Credo allora che oggi sia importante accentuare la dimensione spirituale della Chiesa, tanto necessaria per un laico che deve vivere la sua appartenenza ad essa non nei luoghi della comunità, ma nel mondo; e che dunque solo se sperimenta nella sua coscienza il legame interiore con essa può essere Chiesa nel mondo; solo se ha il senso misterioso di questo legame sa che la sua fede, vissuta nella solitudine della sua esistenza quotidiana, è tesoro della Chiesa ed ha rilevanza per la sua vita. Credo allora che sia necessario accentuare la riflessione sulla dimensione di mistero della Chiesa; aiutare i laici a sentirsi “portati” dalla fede della Chiesa; a vivere la presenza delle diverse vocazioni come manifestazione di essa; e nella Chiesa, a cogliere e sperimentare sempre il carattere originale della fraternità cui in essa si è chiamati.
Conferenza Episcopale Italiana, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 2001, n. 35
“MADRI, FIGLIE E SORELLE NEL CARISMA MERICIANO” – Testimonianza di Mirella Turri
Appartengo alla Compagnia di Trento, dal 1998 sono direttrice, ed in settembre prossimo termino il mandato. Quando mi viene chiesta una testimonianza, mi sento incapace di rifiutare, normalmente accetto, perché mi sembra buono e giusto restituire a voi in questo caso, ciò che il Signore mi ha dato il dono di vivere, lo restituisco perché non è mio. Vi ringrazio per questa opportunità e per l’attenzione che mi dedicate.
La parola di S. Angela che da subito è risuonata in me, e poi sempre nel corso di questi anni, è stata quanto ci dice nel I Ricordo: vi raccomando di sforzarvi, con l’aiuto di Dio di piantare in voi questo buon concetto ed umile sentimento: che non vi crediate degne di essere superiore… Anzi, ritenetevi come ministre e serve, considerando che avete più bisogno voi di servirle… che Dio ben potrebbe provvedere a loro con altri mezzi migliori di voi… ma nella sua misericordia ha voluto adoperare voi come suoi strumenti per un migliore vostro bene…
Ricordo che nei primi anni ho vissuto una continua lotta interiore pur manifestando serenità, perché mi sentivo profondamente inferiore al compito che ero chiamata a svolgere, incapace; quante volte avrei voluto scappare, mi sarei messa sotto il tavolo, invece di guidare un incontro di Consiglio. Con il passare degli anni il Signore mi ha concesso la grazia della conversione, di saper accettare questo impegno.
L’impegno, il desiderio ed il sogno più grande è stato quello di promuovere con tutta me stessa, con tutte le mie forze, ma soprattutto con il conforto e la guida dello Spirito Santo, l’unità nella Compagnia, l’essere la Compagnia una famiglia unita, dove regni la pace, la concordia, dove ognuna si possa sentire a casa propria. E’ per fede che ho accolto questo servizio, ed ancora per fede che le sorelle della Compagnia di Trento hanno accolto me come Direttrice. Tutte le volte che mi sono discostata de questa visione di fede non capivo più niente, tutto mi sembrava assurdo, andavo in crisi. Quindi scoprire e capire che io avevo bisogno di realizzare il servizio di guida nella Compagnia, con il passare del tempo è diventato veramente liberante e mi ha aiutato ad avere una giusta dimensione e coscienza di me, del ruolo da svolgere, del mio essere utile ma non indispensabile.
A volte è abbastanza difficile seguire l’essenziale, ciò che è più importante, ciò che vale, perché si è attratti o distratti da altro; perché a volte ci si inganna, si sbaglia; comunque, come sono stata capace, ho cercato di mettere al centro del mio cuore, dei progetti, di ogni impegno, la sorella, ogni sorella. Ho voluto bene ad ogni sorella per quello che è, non in massa; mi sembra di conoscere qualcosa di ognuna, certo quello che sono riuscita a capire, a percepire, quello che mi è stato dato di conoscere. Riconosco che a volte ho trovato difficoltà a fare equilibrio fra la mia missione ed accogliere la libertà di ognuna. So solo che se a volte non tutto ho capito o ho frainteso qualche sorella, comunque ho voluto bene ad ognuna di un amore particolare. Entrando nel mio ruolo ho maturato l’atteggiamento di venerare e rispettare profondamente la libertà di ognuna. Ogni sorella mi ha fatto sussultare il cuore, sento tenerezza per ognuna e in particolare per chi vedo lontana o indifferente, chi in difficoltà, o ammalata, sola, sofferente in qualche modo-
Sempre il leggere la parola della Madre è un esperienza speciale, così in questi anni certe espressioni hanno avuto un impatto particolare, mi hanno colpito profondamente, sento che hanno una forza speciale queste parole quando mi dice nel II legato: devi avere scolpite nella memoria e nel cuore tutte le figlioline, una per una, ed alla fine insiste ancora:…sarà impossibile che non le abbi tutte particolarmente dipinte nella tua memoria e nel tuo cuore. Per me sono delle bellissime immagini che esprimono quanto deve essere grande l’amore per ogni sorella tanto da identificarmi con loro. L’artista è lo Spirito Santo che nella misura che sono disponibile avanza nella sua opera. Ogni evento è prezioso e significativo, però sono fondamentali gli incontri e i dialoghi con ogni sorella, la condivisione che si è stati capaci di mettere in atto, la profondità e la sincerità della revisione. Da questi incontri posso testimoniare che sempre ne ho tratto grande beneficio e edificazione, ho imparato ad essere vera ed intatta sposa de Figliol di Dio. Spesso mi sono sentita inadeguata, incapace, senza parole ecc… ed allora ugualmente rimanevo fedele alla mia missione, manifestavo il mio limite, ascoltavo con ancor più intensità e pregavo. Per me l’essere direttrice è stato essere ostinata nell’incontrare le sorelle, aver a cuore quel abbiano a vedersi come care sorelle, promuovere ed approfittare di tutte le occasioni, favorire questi incontri, il dialogo costante; gioire quando le sorelle si incontravano, quando sapevo che andavano a visitare qualche sorella magari con problemi, o anziana ed inferma, era sempre una gioia grande, io ero con loro, mi sentivo rappresentata, come io rappresentavo tutta la Compagnia.
- Angela ci dice: vi lascio come mie eredi, ogni volta che incontro una sorella mi preparo pregando S. Angela perché sia lei a riscaldare il mio cuore, ad ispirare le mie parole, il mio ascolto, i miei silenzi, l’atteggiamento di tutta me stessa. Vivo questi incontri come qualcosa di “sacro”, che appartengono unicamente a Dio, io sono una umile sua serva, scovata dal suo sguardo. Appunto sono nella Compagnia per servire, la Compagnia non è mia, sono lì per promuovere la vita quella più vera ed autentica, per promuovere il nostro cammino spirituale che si esprime in una continua tensione verso Cristo, nel nostro essere unite insieme per “servire” il Regno di Dio nella secolarità, in fedeltà al nostro. Così dicono le nostre Costituzioni.
Impegno costante di tutti questi anni è stato: continuare ad essere profondamente me stessa ed allo stesso tempo rinunciare ad essere me stessa, chiarisco: ho cercato e lasciato che le mie doti, i miei talenti, la natura donatami da Dio fossero a servizio del mio servizio. Però allo stesso tempo ho scelto di lasciare e di rinunciare ad alcuni impegni ad esempio in parrocchia o nel mondo missionario, per essere più disponibile per la Compagnia. Mi riferisco non solo ad una disponibilità di tempo e di mezzi, ma in particolare ad una disponibilità di cuore, di desideri, di aspirazioni ed anche di sogni. Certo certi sogni li custodisco e li coltivo nel segreto del mio cuore e forse un giorno potranno ancora realizzarsi, sempre a Dio piacendo.
Anche la mia preghiera è cambiata, perché è cambiata la mia situazione, infatti mio primo impegno è quello di presentare a Dio nel segreto della mia relazione con Lui tutte le mie sorelle e figlie e chiedere per ciascuna che rimanga nella consolazione e continui ad avere viva fede e speranza e poi che sia sempre benedetta dalla beata e indivisibile Trinità. Per non dimenticare nessuna a volte anche prima di mettermi a pregare, scorrevo l’elenco di tutte le sorelle. Era veramente bello, interessante ed emozionante fare questo giro al Trentino in pochi minuti. Devo però confessare che comunque una infinità di volte, scrollando la testa mi sono rivolta a Dio dicendo: o Dio che povera direttrice ha la Compagnia di Trento, provvedi Tu, non so fare, non so parlare, non so…, non so…, ho tanta paura ecc….. Come ognuno può testimoniare, anch’io posso dire: il Signore è stato buono con me, è sempre stato al mio fianco.
Desidero condividere ancora con voi anche la mia esperienza con il mio Consiglio, sottolineando “mio” come dicono sempre le Costituzioni, veramente ho vissuto il Consiglio come una realtà inscindibile dal mio sevizio. Insieme si è portato avanti il governo della Compagnia, ogni scelta, ogni decisione è nata e cresciuta in seno al Consiglio, nella diversità c’è stato confronto, condivisione, ascolto, ricerca, aiuto reciproco, stima, pazienza, sopportazione ecc…. con tutta franchezza posso dire che senza il Consiglio non sarei direttrice, altrimenti sarei come un corpo mancante di parti vitali. Insieme abbiamo fatto un’esperienza significativa, perché ogni consigliera si è “presa in carico”, così l’abbiamo denominata, ha come adottato alcune sorelle, così tutte avevano l’opportunità di sentirsi seguite e sentire la vicinanza, la fraternità, l’attenzione, l’aiuto quando ce ne era bisogno. Sul versante della fraternità si è sempre in cammino e questo è anche bello ed affascinante, importante è camminare ed accogliere le sfide, le esigenze che la realtà continuamente propone.
L’esperienza mi suggerisce che spesse volte non si riesce a risponde a tutti i bisogni ed esigenze di ognuna, le incomprensioni fanno parte del cammino, comunque niente e nessuno va disprezzato o sottovalutato, tutto alla fine concorre al maggior bene, tutto diventa segno che mi parla, anche le contrarietà sempre mi hanno aiutata a cogliere la realtà nella dimensione più vera e reale.
In questi anni abbiamo affrontato diverse realtà, fra le quali i beni della Compagnia, cioè le case, e la Compagnia di Trento ne possiede alcune. Insieme abbiamo letto e analizzato la nostra realtà, abbiamo colto i segni dei tempi che sempre il Signore mette sulla nostra strada; il mio servizio è stato quello di promuovere e dire: affrontiamo questa realtà, guardiamola in faccia e poi agiamo di conseguenza. Fare insieme è veramente consolante e liberante. Personalmente ho capito chiaramente e concretamente che i beni della Compagnia non sono la Compagnia e voi forse mi direte che questa affermazione è più che ovvia. Certamente le opere sono beni eccellenti, hanno svolto un servizio prezioso nella nostra diocesi, però non sono la Compagnia, hanno fatto storia, allora hanno risposto a dei bisogni urgenti, impellenti. Ma ora la realtà è diversa per molti aspetti, non di meno per come si è evoluta la concezione dell’istituto secolare. Nell’aver scelto insieme un uso diverso di queste case mi sono sentita profondamente libera, non abbiamo rinnegato il passato, ma siamo state fedeli al presente, come un tempo, le nostre sorelle che ci hanno preceduto sono state fedeli ad impegnate nel loro presente. Quando qualche rara volta sentivo in me la tentazione che tutto sembrava andasse in rovina per fortuna sentivo anche risuonare in me come una gran luce le parole lapidarie della Madre che troviamo in più parti dei suoi scritti: …sforzatevi di agire solamente mosse del solo amore di Dio e dal solo zelo per le anime… , quel “solo” per me ha una forza formidabile, vuol dire Dio solo e questo mi basta, ci basta. Anche se non sempre questo cambiamento è stato facile e semplice, benedico il Signore perchè ci ha concesso di fare un’esperienza di Compagnia. Infatti tutte, poco o molto, eravamo attaccate a questi beni; insieme abbiamo avuto l’occasione di essere generose, di diventare più essenziali, più leggere per camminare più spedite sulla strada per realizzare i disegni del Padre su di noi, sulla Compagnia, sulla Chiesa, e sull’umanità del nostro tempo.
Mio impegno è stato non di inventarmi un cammino, un progetto, ma di seguire, ascoltare, sostenere le esigenze della base, farmene carico, tentare di assumerle, sentirle sulla mia pelle. Contemporaneamente continuare a sentirmi parte della base, a non separarmi, a non credermi diversa e quindi a continuare anche ad ascoltare me stessa. Essere concordi ed unite insieme nel rinnovamento, crescere insieme, non separata, ho voluto continuare ad essere una di loro, e quindi finito il mandato continuo ad essere e rimango una della Compagnia di Trento. Sicuramente però con la grande ricchezza dell’esperienza di Madre, esperienza scolpita e dipinta nel mio cuore e nella mia memoria, che niente e nessuno potrà cancellare. Sarà ancora mio impegno, assistita dalla Sapienza dello Spirito, saper custodire e serbare nel mio cuore tutte queste cose in rispetto e obbedienza a chi continuerà a guidare la Compagnia.
- Angela mi invita a risvegliare il mio spirito per considerare,oltre che la grande grazia, anche la fortuna di avermi affidato il governo , ed è veramente fortuna perché, fra le tante cose positive, ho imparato a conoscere ed amare di più, S. Angela, la Compagnia ed in questi ultimi tempi anche la dimensione della mondialità della Compagnia.
Grazie a tutte.
“MADRI, FIGLIE E SORELLE NEL CARISMA MERICIANO” – Testimonianza di Maria Dravecka
Nel carisma mericiano il senso della la famiglia è molto forte. La Compagnia é una nuova famiglia tenuta unita dalle relazioni di carità, piacevolezza, umilta, speranza….
Anche qui, come nella Chiesa, tutto nasce da Dio, noi siamo fratelli e sorelle non solo per la nostra salvezza, ma per la salvezza di tutto il mondo. Siamo madri, perché dobbiamo portare al mondo la vita e la speranza cristiana, dobbiamo portare Gesú nel nostro tempo come Maria. Siamo figlie, non soltanto di Dio ma, a titolo speciale, figlie di S. Angela, che dice: “Gesú Cristo, il quale, nella sua immensa bontá, mi ha eletta ad essere madre, e viva e morta, di cosí nobile Compagnia…” (Ric. 3, 4).
In questa mia testimonianza voglio parlare specialmente dell’aspetto di essere “sorelle”.
In questi mesi nella nostra Compagnia della Slovacchia, fra noi sorelle, meditavamo proprio sopra le nostre relazioni e le modeste testimonianze di ognuna su come vivere la gioia , essere spose di Gesú Cristo nella famiglia della Compagnia, sono state anche l´ispirazione di questi miei pensieri.
Prima vi voglio offrire uno sguardo alla nostra situazione. Siamo una piccola Compagnia interdiocesana, una ventina di membri, con grandi differenze fra di noi: etá, educazione, professione, alcune con una situazione familiare molto difficile, oppure malate… Naturalmente non abbiamo molte possibilità per essere amiche. La cosa che ci unisce tutte é che siamo consacrate a Dio, siamo sorelle, perché abbiamo la stessa Madre e Fondatrice e cerchiamo di espriemere il suo stile di vita. Il carisma mericiano aiuta ciascuna di noi a vivere autenticamente la fede nelle situazioni differenti della nostra vita. Sicuramente la nostra testimonianaza ha anche la sua importanza, non soltanto per la nostra vita individuale, ma per la Chiesa locale e per il nostro paese.
Due anni fa mi hanno posto una domanda: peché essere membro della Compagnia, non é sufficiente vivere attivamente nella parrocchia? Qualche bella persona si è consacrata a Dio individualmente…. Perché allora io appartengo alla Compagnia di S. Orsola? Qual’è il contributo della mia vita come sorella nella “cosí nobile famiglia”? (T. pr, 11) Qual‘è il valore“di unirvi insieme a servire sua divina Maestá”? (R. pr, 4)
Negli anni in cui ho cercato il mio posto nella vita, questa domanda é stata molto importante anche per me. La situazione della normalizazione nelgli anni 70 e 80 e del secolo scorso era difficile per i fedeli della mia terra. Ufficialmente non era possibile vivere la vita consacrata. Ma io ho capito che non potevo vivere da sola, avevo bisogno di una “comunitá” spirituale, ma anche reale, per rimanere fedele, ma più ancra avbevo bisogno di una “famiglia” spirituale per avere la forza, e l‘energia per camminare anche contro corrente.
Oggi é ancora così. Dopo 20 anni della libertá, in Slovacchia viviamo ancora nella crisi tanto spirituale come economica. ( il 48 per cento dei matrimoni finiscono con il divorzio. I valori del vangelo non sono accettati.) Ognuna di noi vive nella propria situazione come la maggioranza della popolazione. Siamo sole, ma non isolate. Molto spesso sperimentiamo anche il fallimento, ma troviamo l‘aiuto per ricominciare. L´amore di Dio, che conosciamo attraverso la nostra esperienza nella Compagnia é la grande forza per il nostro pellegrinaggio terreno.
Che cosa é piú importante per noi come sorelle? La Compagnia é la scuola dove impariamo le virtú molto importanti per le relazioni nel lavoro, nelle famiglie, con gli amici, nella chiesa… Ho detto, che siamo molto differenti. Non é sempre facile rispettarci. Impariamo ad essere umili, perdonarci, avere pazienza, fiducia. Possiamo aiutarci anche se viviamo in ambienti tanto diversi. É meraviglioso che abbiamo in tutto questo non soltanto la grazia di Dio, ma anche i pensieri degli Scriti di S. Angela. Molto spesso ci ispirariamo alla Regola, dove i consigli dell’obbedienza, della verginità, della povertà sono così importanti e adatti per noi oggi.
Sono molto attuali, non é vero? Leggiamo infatti:
“Allora, in conclusione: obbedire a Dio, e a ogni creatura per amore di Dio … purché non ci sia comandata cosa alcuna contraria all‘onore di Dio e alla propria onestá” (R. 8, 17- 18)
“Allora: sopratutto si tenga il cuore puro e la coscienza monda da ogni pensiero cattivo, da ogni ombra d´invidia e di malevolenza, da ogni discordia e cattivo sospetto, e da ogni altro desiderio cattivo e cattiva volontá.
…non rispondendo superbamente, non facendo le cose malvontieri, non restando adirata, non mormorando, non riportando cosa alcuna di male. ” (R, 9, 7 – 10; 15-19)
“Pertanto ognuna si sforzi di spogliarsi del tutto, e di mettere ogni suo bene, e amore, e piacere non negli averi, non nei cibi e nelle golositá, non nei parenti e negli amici, non in se stessa né in alcuna sua risorsa e sapere, ma in Dio solo e nella sua sola benevola ed ineffabile provvidenza”. (R, 10, 8 – 13)
Davvero, siamo molto lontane da questo ideale, ma quando camminiamo nello spirito del nostro carisma, carisma reale ed umano, possiamo essere luce ed ispirazione anche per chi ci è vicino.
Non con le parole, ma, come dice S. Angela, con la letizia, la carità, la fede e la speranza: “Ma sia lieta, e sempre piena di caritá, e di fede, e di speranza in Dio. E il comportamento col prossimo sia giudizioso e modesto … Ma tutte le parole, gli atti e i comportamenti nostri siano sempre di ammaestramento e di edificazione per chi avrá a che fare con noi, avendo noi sempre nel cuore un´ardente caritá.” (R, 9, 11 – 12, 21 – 22)
Alcuni giorni fa ho parlato con una donna che mi ha detto come é importante per lei avere un’amica che non dice: “questo bisogna fare, questo non bisogna fare”, ma che è invece sempre vicina, sopratutto quando é nella difficoltá, e che con il suo stile di vita é per lei di vera edificazione. Ogni incontro con questa amica le regalano sempre una nuova speranza .
Sono stata molto felice, perché questa amica é orsolina secolare. Probabilmente di questo ha bisogno il mondo oggi: vedere, attraverso l’esempio di persone cristiane, che la vita, anche con difficoltá, puó essere bella e piena di speranza.
Per questo ho bisogno delle sorelle, ho bisogno della Compagnia. Io sono sorella per altre sorelle: pronta ad ascoltare, aiutare, non giudicare, e illuminare con i fatti la vita per far conoscere che cosa é buono e gradito a Dio.
Sono sorella per tutti: per prima nella Compagnia, ma anche nella scuola dove lavoro, nella parrocchia, nella mia casa, per i parenti, per tutti gli uomini che che incontro.
Ma io mi sento sorella anche grazie alle mie sorelle di Compagnia: anch´io ho bisogno del loro aiuto. Spesso non ho la forza per fare il mio dovere come dovrei, spesso non so che cosa devo fare, che cosa é la volontá di Dio per il momento attuale. Posso domandare, consigliarmi, ma piú di tutto, possiamo pregare insieme.
Anche tutta la realtà del mondo che si chiama appunto “secolare” é per me fraternità. Ogni giorno, nella realtà secolare, trovo l’invito per crescere nella fiducia in Dio, nella pazienza, nel coraggio. Mi insegna a conoscere i miei limiti. E cosi mi educa su come é importante quello che dice S. Angela: “Siate legate l´una all´altra col legame della caritá, aprezzandovi, aiutandovi, sopportandovi in Gesú Cristo”.
Grazie a Dio per il nostro bellismo carisma. Nella Compania nel nostro paese abbiamo molte difficoltá, specialmente la difficoltà del tempo e della lontananza, mancano a volte le occasioni per riunirci, ma sappiamo che abbiamo una grandissima ricchezza negli Scritti di S. Angela, antichi e sempre nuovi, e nelle Costituzioni della Compagnia. Dobbiamo conoscerli e viverli sempre meglio. Adesso, nell‘anno 475° di fondazione della Compagnia, é il tempo giusto e favorevole per farlo. E poi pian piano desidero migliorare anche le mie relazioni per essere donna consacrata a Dio, innomarata di Gesú Cristo, nostro unico Amatore, ma del tutto “incarnata“ nella situazione del mondo oggi, cordiale e vicina a tutti quanti incontro sul mio cammino.
Con tutto quello che abbiamo ricevuto possiamo andare avanti con coraggio, semplicemente vivendo la nostra vita come figlie, sorelle, madri. Penso, che anche questo sia il nostro contributo per ralizzare il grande progetto cristiano, come é scritto nella Lettera agli Efesini: “per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioé di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra”. (Ef 1, 10)
1° relazione: “SECOLARITÀ CONSACRATA NELLO STILE MERICIANO” (Adriano Tessarollo)
Parto da alcune affermazioni di Giovanni Paolo Il sulla secolarità.
Secolarità ” indica il permanere dei membri degli Istituti Secolari nel mondo, fra gli uomini del loro tempo, dei quali condividono condizioni, istanze, professioni… consapevoli di dover cambiare il mondo dal di dentro“.
Quindi secolarità significa relazione profonda con il mondo, inteso come umanità concreta e come cultura da evangelizzare.
Nelle Costituzioni della Compagnia al n° 3.1 leggiamo: «Partecipi mediante la fede e il battesimo del mistero pasquale di Cristo…siamo chiamate ad essere “vere e intatte spose” del Figlio di Dio, a separarci dalle “tenebre” del mondo…per “servire” il Regno di Dio nella secolarità».
Il riferimento fondamentale è la fede e il battesimo, mediante i quali la consacrata è resa partecipe del mistero di Cristo, conformata al suo servire il Regno nella secolarità, cioè mandata ‘nel mondo’, senza essere “del mondo”, come è detto da Gesù in Gv 17,12-19.
Questo significa anche per sant’Angela quando scrive alle “dilette figlie e sorelle della Compagnia di Sant’Orsola…Dio vi ha concesso la grazia di separarvi dalla tenebre di questo misero mondo e unirvi insieme a servire la sua Maestà” (Regola, Prologo).
La secolarità è anche condivisione della vita ordinaria di donne del proprio tempo e del proprio ambiente, senza particolare distinzione di forme e di organizzazione, pronte a riconoscere i segni del regno di Dio che viene, vivendo la propria consacrazione particolare all’interno della consacrazione battesimale.
Al n° numero 3.4 delle Costituzioni infatti si prosegue: «Camminando con fedeltà in questa forma di vita (“…vita di Consacrate secolari con il centro di unità in Cristo Gesù…che ha rivelato il suo amore senza riserve per ogni essere umano”, cfr. 3.3), parteciperemo attivamente all’avvento del Regno dando il nostro contributo per portare la forza rinnovatrice del Vangelo negli ambienti dove Dio ci ha chiamate… operatrici ovunque di pace e di concordia».
Infine secolarità mericiana significa anche diocesanità, cioè legame con una chiesa di un territorio e di una cultura particolari, cosa che darà una fisionomia specifica ad ogni Compagnia proprio perché caratterizzata dalla situazione e dalla cultura della sua Chiesa locale, come si dice in 4.3: «Con animo filiale parteciperemo al dinamismo missionario della Chiesa, tutta protesa alla evangelizzazione, ci impegneremo a dare il nostro contributo da laiche consacrate alla vita della diocesi…».
Naturalmente questi elementi fondanti il Carisma mericiano vissuto nella secolarità determinano uno stile mericiano della vita della consacrata nella secolarità.
Vorrei sottoporre alla vostra attenzione gli aspetti della vostra consacrazione che emergono dalla spiritualità che Sant’Angela fa scaturire dalla sua comprensione dei Consigli evangelici e danno forma al carisma mericiano vissuto nella secolarità.
1.Obbedienza nella secolarità mericiana
Cost. n° 19.1. “Con il dono della nostra volontà a Dio partecipiamo nella Chiesa e con la Chiesa al mistero dell’obbedienza di Cristo, venuto nel mondo non per fare la sua volontà ma la volontà di colui che lo ha mandato”. E’ chiaro il riferimento a quando sant’Angela dice nel cap. VIII della Regola a proposito dell’obbedienza.
Il riferimento a Gesù è fondamento e angolo di visuale della nostra obbedienza. “Colui che mi ha mandato è con me: non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Gv 8,29). Gesù ci insegna la spiritualità dell’obbedienza. “Ecco io vengo per fare la tua volontà” (Ebr 10,9). Questa è la spiritualità della missione di Cristo e deve diventare anche la nostra.
Nella preghiera prendiamo consapevolezza e ci offriamo al disegno di Dio e nell’operare quotidiano, in coerenza con quanto offerto, maturiamo nel tempo e nell’esercizio questa spiritualità. Ecco perché la nostra obbedienza è un atto di libertà. Si tratta di porre al centro della nostra vita ‘le cose che gli sono gradite’, ‘la sua volontà’(cfr. S. Angela: primo: obbedire ai comandamenti di Dio).
Elemento essenziale allora prima di agire è di conoscere e discernere ‘le cose che gli sono gradite’, ‘la sua volontà’. Questo significa essere donne spirituali, che cioè sanno ascoltare lo Spirito (cfr. S. Angela: obbedire ai consigli e alle ispirazioni che di continuo lo Spirito Santo suscita nel cuore), che sanno confrontarsi nella ‘Chiesa’ (cfr. S. Angela: obbedire a ciò che comanda la santa madre Chiesa, al proprio vescovo e pastore…), aperte e disponibili per aderire ad un progetto che viene prima di noi e che ci oltrepassa, perché è un progetto che ha origine dal ‘Padre’, e non è finalizzato a noi stesse (ricchezza o interesse personale, successo personale, compromesso di comodo), ma a Lui e al suo disegno di salvezza.
Nell’obbedienza di Gesù si riscontra un atteggiamento che va oltre il semplice adeguarsi: egli cerca invece la comunione col Padre, l’unità nel ‘volere’ e nel ‘sentire’. In Gv 17,4 Gesù tira il bilancio della sua esistenza e missione: “Ti ho glorificato compiendo l’opera che mi hai dato da fare”.
L’obbedienza consiste nel riconoscere che la missione della Chiesa è a servizio di un disegno di salvezza di Dio manifestato in Gesù Cristo: obbedire è aderire di cuore con consapevolezza a questo disegno.
La nostra vita e missione personale è obbedienza in quanto aderisce a questo progetto. Ciascuna si trova a giocare la propria obbedienza nelle scelte e negli atteggiamenti quotidiani in conformità anche alle leggi sociali e civili del territorio in cui si è inseriti (cfr. S. Angela: obbedire anche alle leggi e agli statuti dei reggitori, e ai governatori degli Stati) .
Non ci sono scelte o atteggiamenti che non abbiano attinenza con l’orizzonte ampio del disegno di Dio manifestatoci in Gesù Cristo. Neanche il gesto più scontato, il più quotidiano è un gesto banale. E’ sempre significativo, sempre importante ogni momento in quanto momento di edificazione del Regno di Dio sulla terra e di attuazione del suo disegno.
L’obbedienza di fede si ispira alla Parola e all’esempio di Gesù e tocca e accompagna tutte le nostre scelte.
- Verginità nella secolarità mericiana
Nel vangelo la verginità è proposta“a quelli cui è dato” (Mt 19,11). Paolo direbbe: “ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo chi in un altro” (1Cor 7,7). La sua comprensione piena però si avrà se tale condizione è vissuta nella relazione ‘sponsale’ con il Signore (verginità per il Regno) e nella dimensione apostolica della carità verso il prossimo.
E’ sempre attuale l’esortazione di S. Angela nel cap. IX della regola, a proposito della verginità: “Ognuna voglia conservare la sacra verginità, non già facendone voto per esortazione umana, ma facendo volontariamente sacrificio a Dio del proprio cuore”.
Si tratta di una relazione d’amore che nasce per libero amore e che è capace di sostenere anche il sacrificio richiesto nel donarsi totalmente ad un altro.
E’ poi interessante notare come la verginità è vista come una porta che apre alla relazione anche con il prossimo. Infatti dopo avere indicato gli atteggiamenti negativi che la verginità aiuta a superare (tenere il cuore puro e la coscienza monda da ogni cattivo pensiero, da ogni ombra di invidia e di malevolenza, da ogni discordia e cattivo sospetto e da ogni altro desiderio e cattiva volontà…non rispondendo superbamente, non facendo le cose malvolentieri, non restando adirata, non mormorando, non riportando casa alcuna di male) sant’Angela conclude positivamente: “Ma tutte le parole, gli atti e i comportamenti siano sempre di insegnamento e di edificazione per chi avrà a che fare con noi, avendo noi sempre nel cuore un’ardente carità”.
Fuori da queste due dimensioni (relazione sponsale con il Signore e carità verso il prossimo) la verginità è percepita prevalentemente come ‘privazione’ e non opportunità e spesso fa scattare atteggiamenti ‘compensativi’ che ne compromettono il valore della testimonianza: autoritarismo, egoismo, materialismo, edonismo, esagerato attaccamento ai beni materiali di qualsiasi genere, tendenza a dominare più che a servire, insoddisfazione costante, solitudine.
Anche il n° 20.1.2 delle Costituzioni così sintetizza: “Abbracciando la castità per il Regno dei Cieli partecipiamo nella Chiesa e con la Chiesa al mistero della verginità di Cristo che ha tanto amato gli uomini fino a dare se stesso per la loro salvezza. In unione a Cristo e ad imitazione di Lui, risponderemo all’amore del Padre con un continuo atto di amore tenendo viva in noi l’attesa dell’incontro definitivo con l’Amatore’ nostro ”.
Questo stile di vita può essere vissuto se si coltivano la vita spirituale, le buone amicizie, se si pratica la carità, se ci si educa al sacrificio e al controllo della propria emotività, se si valutano saggiamente le situazioni che ci espongono al rischio di infedeltà, senza presumere di sé.
2° relazione: “COLTIVARE LA RELAZIONE CON DIO” (Adriano Tessarollo)
Dio si è manifestato agli uomini non solo per farsi conoscere, ma per chiamarli alla relazione con Lui. Dunque la chiamata, anche secondo sant’Angela è una chiamata a relazionarsi esistenzialmente con Lui. E’ nella bellezza di una relazione che esperimento il fine per il quale Egli si è rivelato e mi ha chiamato. Per questa esperienza Angela dice che “dovete ringraziarlo infinitamente che a voi abbia concesso un dono così singolare…conoscere cosa comporta una tal elezione e che nuova e stupenda dignità essa sia”(Regola, prologo). Due ‘luoghi’ privilegiati per coltivare la relazione con Dio sono, anche nella spiritualità mericiana, la preghiera e la povertà.
- La relazione con Dio nella preghiera della consacrata secolare.
Mi piace ricordare qui due passi delle Costituzioni sulla preghiera. “La preghiera perseverante ci renderà partecipi del colloquio filiale di Gesù con il Padre e ci disporrà ad accogliere i doni dello Spirito Santo” ( n° 11).
La preghiera qui è vista come partecipazione del colloquio filiale di Gesù con il Padre. E’ la preghiera di Gesù che deve ‘dare materia’(s. Angela) alla nostra preghiera. Nella sua preghiera Gesù si metteva ‘in relazione’ con il Padre, al punto da fare suoi i desideri e i progetti del Padre. La sua preghiera diventa lode e benedizione del Padre sotto l’azione dello Spirito: Lc 10,21: “In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: «Ti lodo e ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra…Si, Padre, perché così a te è piaciuto». Gesù qui sta guardando ciò che sta succedendo in lui e attorno a lui: i 72 discepoli hanno annunciato il vangelo, ma lo hanno accolto principalmente ‘i piccoli’! Gesù riconosce in ciò non un insuccesso ma l’opera della libera grazia del Padre. La preghiera diventa criterio per interpretare ciò che accade non con criteri umani ma aperti alla imprevedibilità di Dio. Ma sappiamo che il colloquio filiale di Gesù con il Padre tocca tutti gli aspetti, come si può vedere nella preghiera del ‘Padre Nostro’ e nelle altre preghiere di Gesù riportate nei vangeli. Si veda anche la preghiera di Sant’Angela al cap. V° della Regola.
Un secondo aspetto della preghiera che è particolarmente significativo per chi è immerso nella secolarità è quello ricordato al n° 12 delle Costituzioni: “Illuminate e trasformate dalla parola, potremo guardare all’uomo, al mondo e alla storia con lo sguardo di Dio”. E’ il potere trasfigurante della preghiera. L’esperienza punto di riferimento e quella di Gesù al Tabor: Gesù è in preghiera e “mentre pregava il suo volto cambiò d’aspetto…”(Lc 9,29). Quella preghiera, quel colloquio col Padre lo trasforma in servo obbediente del Padre nel suo imminente viaggio verso Gerusalemme. Da quella preghiera Gesù esce pronto per portare la sua testimonianza coraggiosa davanti a tutto il popolo d’Israele a prezzo della sua passione e morte. I due personaggi che appaiono in dialogo e preghiera con lui sono Mosè ed Elia, altri due illustri uomini, trasformati in coraggiosi testimoni dalla loro preghiera davanti al Signore. Basta leggere Es. 34,27-38, dove si dice che “il viso di Mosè era diventato raggiante, poiché aveva conversato con il Signore” (34,29). La preghiera-colloquio con il Signore lo ha trasformato in testimone della sua Parola e guida del suo popolo. Lo stesso si dice di Elia in 1Re 19,11: “Gli fu detto: «Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore». Ecco il Signore passò”. Dopo quell’incontro lo spaventato e deluso profeta in fuga torna ad essere il coraggioso testimone di Dio e della sua Parola in mezzo al suo popolo.
Vorrei concludere questo riferimento alla preghiera ricordando il n° 14.1 delle Costituzioni: “Consapevoli che occorre raccogliersi in Dio per stare in verità nel mondo, troveremo ogni giorno momenti di silenziosa adorazione e contemplazione anche nelle nostre case per dare voce al rendimento di grazie insieme con tutte le creature, chiedere perdono per il peccato del mondo, per noi e per tutti i nostri fratelli; stupirci delle meraviglie che Dio opera in noi e attorno a noi”.
- Testimonianza della secolarità consacrata nella povertà
Mi ha sempre colpito l’ottica con la quale sant’Angela invita “ognuna ad abbracciare la povertà, non solo quella effettiva, riguardante le cose temporali, ma soprattutto la vera povertà di spirito, con la quale l’uomo si spoglia il cuore da ogni affetto e da ogni speranza di cose create e di se stesso. E in Dio ha ogni suo bene e fuori di Dio si vede povero del tutto e un vero niente, mentre con Dio ha tutto…e a mettere ogni suo bene e amore e piaceri non negli averi…ma in Dio solo e nella sua benevola e ineffabile provvidenza” (Regola cap. X).
Questa prospettiva mi fa collocare l’invito di sant’Angela alla povertà nell’ambito principalmente della relazione con Dio. L’impegno che gli uomini pongono nel perseguire gli interessi terreni è ben più grande di quello che dedicano agli interessi spirituali ed eterni, che invece sono senza confronto i più importanti, ma principalmente di quello che dedicano alla relazione con il Signore. I poveri nella Bibbia sono coloro che nutrono una consapevole fiducia in Dio al quale hanno affidato la loro causa, sanno di poter contare su Dio. L’atteggiamento di povertà evangelica può scaturire solo se si scopre che Dio è il bene fondamentale della propria vita, la perla preziosa di fronte alla quale tutto il resto gioiosamente è finalizzato. La povertà nella Bibbia è sempre posta in riferimento alla ricchezza che è considerata un pericolo dal quale bisogna ‘mettersi in guardia’. Certamente la ricchezza/beni possono rappresentare sia un pericolo come un’opportunità:
– l’opportunità è data dalla possibilità di esprimere solidarietà ai poveri condividendo con loro i nostri beni, mettendoli a sevizio dei bisogni della comunità;
– il pericolo è che essa diventi quel ‘mammona di iniquità’ al quale attacchiamo il cuore e che teniamo gelosamente nascosto, che ci affanniamo ad accrescere per tutta la vita, che diventa accumulo per riservarlo esclusivamente a chi ha con noi un legame umano.
Un retto atteggiamento e uso dei beni è possibile solo a partire da un profondo atteggiamento spirituale grazie al quale tutto viene posto dopo Dio, riconosciuto e accolto come valore supremo. La povertà trae il suo senso dalla carità, intesa come atto autentico di onorare Dio condividendo i propri beni. Così la carità, come disponibilità ad impoverirsi per donare ciò che ci appartiene, è un atto religioso con cui si riconosce che nessun bene può competere col bene supremo che è Dio. L’alternativa evangelica non è tra essere ricchi o essere poveri, ma tra l’amare Dio o amare la ricchezza preferendola a Dio stesso o anche mettendola sullo stesso piano. La povertà evangelica appare come condizione libera e voluta, che libera dall’affanno dell’avere e dall’illusione che basti avere per essere sicuri e per essere felici. Essa comprende anche la saggezza di pensare equilibratamente pure a se stessi: ‘non ho desiderato ne ricchezza né miseria, ma solo il necessario per il mio vivere” (Pr 30,8).
Anche le Cost. al n° 21.2 invitano così: “In unione a Cristo e ad imitazione di Lui praticheremo la povertà evangelica nella dipendenza totale da Dio, che vuole il nostro bene e la nostra gioia; sperimenteremo la libertà dei figli, vivendo del nostro lavoro e usando le cose del mondo con sereno abbandono al Padre e nella sua ‘benevola e ineffabile Provvidenza’…” .
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